UFFICIO NAZIONALE PER I PROBLEMI SOCIALI E IL LAVORO
DELLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA

Società civile e Comunità Europea

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6 Settembre 2000

no solo rispettare le durissime regole di democrazia, di convivenza civile, una carta dei diritti umani, il rispetto delle minoranze. Tutte conquiste comuni dell'Europa! E su questo, secondo me, che si riesce a ricostruire lo spirito del dialogo comune. E qui il compito del mondo cattolico è enorme. Non è più esclusivo, come era nella piccola Europa dominata dal mondo cattolico, però resta ancora un riferimento straordinariamente importante, richiesto, desiderato, voluto.
10. Scusate la disorganicità dell'esposizione, ma voglio dirvi che sono veramente in una fase di apprendimento di "un mestiere difficile". L'unico momento, in cui sono stato molto male negli ultimi tempi, è stato quando mi hanno accusato di non dedicarmi al 100% all'Europa e di rimanere ancorato alla politica italiana. Mi sono veramente offeso perché ho dedicato tutto il mio tempo al compito di costituire una Commissione come voi sapete. Sono dell'idea che, quando si entra in un contesto diverso, bisogna imparare a fare dei salti. E la sfida che vi ho descritta è talmente grande e importante, anche per l'Italia, che bisogna portarla a fondo. Le possibilità di successo non sono molte, anche se non mancano importanti e solide basi di partenza. Se riusciremo a dare ai Balcani questa prospettiva, conquisteremo una legittimazione in più di fronte agli europei e al mondo intero. E allora, alle prossime elezioni, non andrà a votare il 40%, ma il 70%! Se invece non risolviamo i problemi, si calerà anche al 30%. Questo è il senso profondo della situazione attuale. Aiutatemi a credere nella mia missione e a gettare, a piene mani, semi di speranza. Grazie di cuore. 1. Vi ringrazio molto di questo invito. Le quattro presentazioni che hanno preceduto la mia esposizione mi permettono di riflettere e di reagire a caldo. Invero, il compito che mi è stato chiesto di svolgere oggi è molto ampio, e riguarda lo spazio di una società civile in Europa, argomento che va a pescare su alcune radici senza le quali è difficile costruire quegli aspetti di solidarietà e di pluralismo che avete richiamato. Non vorrei che ritenessimo l'Europa di oggi come un proseguimento, senza scosse di interruzione, della vecchia l'Europa solidaristica dei tre grandi cattolici che, parlando in tedesco fra di loro, con un'identità che usciva dalla seconda guerra mondiale, cominciarono a pensare a quest'Europa. L'Europa che riceverò, per i nuovi compiti che sto per assumere, è un'Europa diversa, anche se la sfida è bellissima. E un'Europa che non ha più un punto di riferimento dominante a livello di pensiero orientante, ma è un'Europa che si trova al grande incrocio tra radici latine e germaniche, che ha raggiunto un equilibrio, sono certo stabile, con la radice anglosassone e che ora si trova a doversi misurare con la radice slava. Questa grande sfida dell'amalgama europeo è una sfida di quelle di portata veramente epocale.
2. Questa sfida deve essere affrontata con i ben noti limiti istituzionali dell'Europa, dove la Commissione ha determinati e forti poteri, che tuttavia sono contemperati, da un lato, da quelli del Parlamento - come avviene in ogni Paese - e dall'altra da quelli dei Consigli dei ministri, cosa che non capita nei singoli Paesi. Si tratta di un equilibrio difficile, per raggiungere il quale dobbiamo sia dimostrare la capacità dell'iniziativa che ci è riconosciuta dalla legge, sia trovare la capacità per ciascuno dei punti, da voi indicati, di conquistarlo in modo creativo e duraturo. Questa è la più bella sfida politica ed etica ad un tempo che sia mai stata affrontata e, pur avvertendone più il peso che la gioia, penso che non sia ma i successo durante della lunga stagione della modernità di avere la possibilità di realizzare una realtà economica e politica, così vasta e così ampia, come è l'Europa, con il consenso e non con la forza. La fondazione degli Stati Uniti d'America è stata molto più facile. Prima di tutto c'è stata la guerra di indipendenza e poi un grande convenire di persone da tutte le parti del mondo verso il nuovo mondo, formando una nuova realtà con un'unica lingua, e nella quale la pluralità delle tradizioni culturali venne, per così dire, annullata in un unico amalgama. Ora, invece, dobbiamo costruire un continente in cui le radici rimangono e non c'è gente che si sposta. Si tratta, per ora, di quindici Paesi, che dovranno diventare venticinque/ventisei, ognuno con i suoi punti di robustezza, le sue radici, le sue tradizioni. Anche le realtà del terzo settore, del welfare, sono di una diversità impressionante in Europa. Il problema non è quello di omogeneizzarli, perché è caratteristica propria del terzo settore quella di non omologare, ma di ricercare, mediante il confronto, punti di convergenza su obiettivi comuni per ottenere, da queste diversità, una forza propulsiva verso il futuro, verso il raggiungimento di più ambiziose mete. Quando Gigi Bobba, mettendo in rilievo i risultati raggiunti, insisteva sulla necessità di coordinare per via burocratica tutte le decisioni in materia di terzo settore, toccava uno dei punti nevralgici. Non è che questo non venga fatto per cattiva volontà, ma perché ci sono delle profonde diversità su questi obiettivi. Ad esempio, c'è una grande paura nel mondo anglosassone che il semplice prendere in esame questi temi, per ritrovare un punto di riferimento comune, costituisca un aumento di statalismo, una visione completamente diversa rispetto a quella che abbiamo sentito poc'anzi. Sono convinto che la necessità di portare avanti gli obiettivi di riconoscimento, dell'allargamento, del terzo settore sia fondamentale per instaurare un rap porto nuovo e corretto con il settore pubblico, ma nel mondo anglosassone questa operazione è percepita come un ulteriore "carrozzone" che si mette vicino a quello pubblico. Bisogna dunque vigilare perché questo non avvenga. In aggiunta alla pur ampia diversità in ambito europeo, va considerata un'ulteriore complicazione connessa all'allargamento dell'Unione Europea verso Paesi con una struttura pubblica elefantiaca. In questo caso, il problema non è tanto quello di affiancare la concorrenza del terzo settore a questa struttura pubblica, ma di, scomporla e poi rifarla. Molto simile, per altri motivi, è il discorso dei Paesi della sponda del sud del Mediterraneo nei quali non esiste una vera e propria società civile. Salvo che per la fornitura di beni alimentari, imperativo questo imposto dal Corano, non esiste, in questi paesi, una società civile organizzata su cui puntare per la fornitura dell'ampia gamma di servizi alla persona che contraddistinguono un moderno welfare state.
3. Inizio il mio nuovo incarico, con l'enorme problema di riorganizzare e rilanciare l'Unione Europea, quasi come se fossi "sotto processo", non tanto personalmente, ma come uno che è messo a capo di un'istituzione che in questi mesi è stata oggetto di un pesante "gioco al massacro". In alcuni casi anche giustificato, in altri veramente incomprensibile. Se è vero, ad esempio, che c'è stato un allargamento burocratico, non bisogna però dimenticare che i dipendenti di tutta l'Unione Europea sono circa un terzo dei dipendenti comunali di Parigi. Questa critica sta a significare che c'è qualcosa di incoerente in questi discorsi e che il problema fondamentale è quello di ritrovare lo spirito comune, di accettare di transitare da un insieme di Stati nazionali ad uno Stato soprannazionale. Questa idea è ancora acerba ed è necessario portarla avanti con coraggio. E bene ricordare che proprio gli Stati nazionali hanno posto come limite invalicabile del bilancio europeo l'1,28% di tutto il prodotto nazionale lordo dell'Europa. Naturalmente ciò realizza già una buona somma ma, per fare un confronto chiarificatore, essa rappresenta appena la metà del bilancio spagnolo. Dunque, non si tratta certamente di un bilancio sterminato! Come comprenderete, si tratta di limiti seri della nostra azione, ed è per questo che risulta importante il vostro messaggio. Sono convinto infatti che è questo il momento per costruire più solide radici e che lo spirito che oggi va ad imporsi sarà quello che finirà col prevalere - magari fra cinque o dieci anni. Si tratta di una grossa sfida anche per il mondo cattolico, per coloro che hanno una sensibilità religiosa. Pur riconoscendo che il pluralismo possa talvolta risultare paralizzante, sono del pari persuaso che quello che viene seminato adesso finirà con l'incidere per un'intera generazione, quella in cui l'Europa si formerà davvero. Come ho affermato nel mio primo discorso a Strasburgo, il problema fondamentale che abbiamo è quello di dare un'anima all'Europa. L'uso, da parte mia, della parola "anima", ha subito provocato delle reazioni da parte di alcuni parlamentari, segno della difficoltà di comprensione reciproca. Non ho certo usato la parola anima in senso strettamente religioso, ma per significare che una grande realtà politica come è certamente l'Europa esige di necessità un punto di riferimento comune, il senso di un comune destinino, in una parola una visione.
4. L'Euro non è solo una realtà economica, ma una grandissima realtà politica e, - con i necessari distinguo - anche spirituale, perché non è mai avvenuto nella storia che si mettessero assieme, in modo pacifico, le due prerogative proprie di una nazione che sono la spada e la moneta. La perdita della sovranità monetaria, quindi, significa la perdita di uno degli strumenti di potere più grossi e il suo conferimento ad un'autorità superiore. Certamente ci sono ancora dei seri problemi. Intanto, però esiste già un comune denominatore, la moneta, attraverso cui si possono fare confronti, unificare meglio gli standard, tessere fili che siano più robusti. La stessa cosa capiterà quando, in un futuro che speriamo prossimo, si metterà insieme anche la politica estera, e in un periodo, che sarà certamente più lungo, la difesa comune. E chiaro che si parte da cose materiali ma che danno anche un'identificazione ad uno spirito comune, senza il quale diventa veramente difficile pensare di mettere insieme i fili del welfare. Il problema dell'Europa dei prossimi anni, quindi, è proprio quello della costruzione di una società civile. Questa è la grande sfida che abbiamo di fronte. A questo riguardo viene spontaneo chiedersi se il volontariato possa essere una delle anime dell'Europa futura. Secondo me certamente. Per le sue caratteristiche intrinseche, l'azione volontaria è sempre generatrice di socialità e dunque di coesione sociale. E per questo che sono profondamente convinto che il volontariato sarà, nel futuro, uno strumento potentissimo di integrazione europea. Tuttavia, esso deve sottoporsi ad un profondo processo di confronto perché questo settore è terribilmente complesso e variegato. Mentre siamo abituati a tutti i confronti aziendali, quando si guarda al terzo settore, sembra quasi che la logica della valutazione debba fermarsi o, addirittura ammettere eccezioni. Bisogna invece avere il coraggio di ammettere che anche nello spazio di intervento del terzo settore è necessario fare entrare l'idea in base alla quale il bene va fatto su strade di bene. Il che significa che occorre far marciare insieme efficienza, solidarietà e relazionalità. In caso contrario, non riusciremo mai a trovare un linguaggio comune con il mondo anglosassone e quello scandinavo; tanto meno riusciremo a far convergere i vari modelli di welfare.
5. Ecco allora il discorso della "casa comune" che diventa necessità di realizzare da parte nostra, ma anche opportunità di avere, da parte vostra, indicazioni precise per creare, in mod o adeguato, lo statuto europeo per le fondazioni, per conseguire i quattro obiettivi specifici: dell'accorpamento, dell'approvazione degli statuti, della lotta organica all'esclusione sociale, dell'anagrafe del terzo settore. Si tratta di un grande lavoro di unificazione, e di chiarimento. Ancora per un po' di tempo, il punto di riferimento saranno le leggi nazionali, ma guai a noi se non si inizia a lavorare fin da adesso ad una legislazione e ad una politica europea, affrontando sfide grandissime alle quali è bene prepararsi subito. Stiamo affrontando il problema dell'allargamento dell'Unione Europea e quello del Mediterraneo. Quest'ultimo sarà il problema dominante del secolo futuro, anche se, per un po' di tempo, sarà messo in coda rispetto ai Balcani e all'Est europeo. Certamente emergerà, con prepotenza perché la pace dell'Europa dipenderà dai rapporti con il mondo musulmano circostante. Questo è inutile nascondercelo: o creiamo un anello di convivenza, oppure vivremo come assediati alle frontiere. Infatti la diversità della dinamica demografica è tale e la natura dei problemi in gioco è tale, che la pace e la guerra saranno decise dai nostri rapporti con il mondo islamico circostante.
6. L'Unione Europea, in teoria, è tutta favorevole all'allargamento, piena di buoni propositi. Ma pone quei vincoli di bilancio di cui vi ho parlato prima. Nell'ultimo anno abbiamo già speso circa l'1,14 e quello che è rimasto di riserva viene abbondantemente assorbito dai Balcani. Quindi siamo già al limite del bilancio, anche se questo è un problema che c'è dappertutto e, lentamente, le strutture riescono a conquistarsi i loro bilanci. Ma il problema dell'allargamento tocca il cuore delle nostre società. L'allargamento è un impegno politico da cui non ci si può tirare indietro. E questione di pace o di guerra. Non possiamo pensare ad un'Europa inquieta; abbiamo già verificato quali problemi i Balcani, che avevamo lasciato fuori dall'idea dell'allargamento, ci hanno causato! L'Europa è per la pace, dove c'è stata l'Europa c'è stata la pace! Nei Balcani c'è stata guerra proprio perché questi erano fuori dall'Europa. Dopo due secoli di guerra, fra Francia, Germania, Italia ci sono state due generazioni di pace: è una cosa grandiosa! Dicevo l'altro giorno a dei ragazzi: "In qualsiasi paese della nostra nazione, per piccolo che sia, troverete sempre, in qualche angolo o in qualche piazza, un monumento ai caduti con file lunghissime di nomi e di luoghi: il monte Grappa, l'Albania, la Grecia, la Russia… Se Dio vuole, nelle ultime due generazioni non abbiamo eretto nessun monumento ai caduti in guerra e neanche un ragazzo è morto al fronte. E questo è merito dell'Europa!". Di fronte a questi fatti, come si fa ad avere esitazioni sull'allargamento? Però, l'allargamento va affrontato a partire dai suoi dati oggettivi: l'allargamento ai dieci Paesi più due. Cipro e Malta, infatti, sono un problema a sé. Cipro perché, fino a quando rimane spaccato in due, diventa difficile il suo inserimento; Malta perché si era dapprima ritirata e poi ha ripresentato la domanda. Tuttavia, essendo un Paese talmente piccolo, non penso possa rappresentare un problema grave. I Paesi che hanno fatto domanda costituiscono un allargamento pari a circa un terzo del territorio europeo, con un aumento di popolazione pari al 29% di quella Europa. Si passerebbe così da trecentosessanta milioni a mezzo miliardo di persone, ma con un aumento di reddito che è tra l'8 e il 9% del reddito europeo. Ciò rappresenta un problema di una gravità enorme!
7. Cosa vuol dire, infatti, allargamento? Vuol dire offrire le stesse prospettive che sono state date alla Spagna, al Portogallo e alla Grecia quando sono entrati in Europa, e di cui questi tre hanno meravigliosamente approfittato. Per loro l'Europa non è stato un fatto di diseguaglianza ma uno strumento di uguaglianza tanto che i Paesi periferici sono cresciuti molto di più dei Paesi che erano più ricchi. Ad esempio l' Irlanda ha un livello di reddito superiore alla media europea e sta crescendo di 8-9% all'anno, passando da Paese di emigrazione a Paese di immigrazione. Sviluppi significativi si sono ottenuti anche in Spagna e in Portogallo. Ora però, con le nuove domande di ingresso, ci troviamo di fronte a difficoltà di una dimensione molto più grave e con una differenza molto più grande di quella di prima. Quando si calcola il 29% in più di popolazione e l'8-9% in più del reddito, vuol dire che il reddito medio di questi Paesi è circa il 27-28% del reddito medio degli attuali Paesi dell'Unione Europea. Questo significa che, in funzione dell'allargamento, dobbiamo sospendere alcune delle acquisizioni che abbiamo raggiunto per fare ancora meglio in futuro; ma, durante la transazione, dobbiamo certamente sacrificare alcuni di quei risultati su cui si basano determinati equilibri sociali, politici ed economici. Fondamentalmente si tratta di due grandi capitoli. Il primo è quello dell'agricoltura e qui vedremo come la Francia, il grande paladino dell'allargamento, si comporterà al momento debito. Infatti l'agenda 2000 è stata approvata quest'anno, semplicemente perché è stata sostanzialmente rifatta quasi come in passato: i prezzi agricoli che dovevano cambiare non sono stati ritoccati. Il secondo capitolo è quello degli aiuti regionali. Se entrano in Europa i dieci Paesi di cui stiamo parlando, è chiaro che gli aiuti regionali andranno quasi tutti a quei Paesi, il che significa Spagna, Grecia, Mezzogiorno d'Italia e Portogallo dovranno subire un cambiamento radicale. Vorrei che, prima che iniziassero i grandi processi sociali, ci rendessimo conto delle rinunce da affrontare. Sono bensì persuaso che questo allargamento vada fatto assolutamente e in fretta, (perché ormai questi Paesi cominciano a non fidarsi più dell'Europa che, dopo aver fatto molte promesse, sta temporeggiano con cavilli sovente burocratici) ma ad occhi aperti. Siamo disposti ad accettare questa dopp ia sfida? Abbiamo di fronte questi grandi problemi: non possiamo ignorarli, né semplificarli, in modo riduzionista. Sono convinto che se si affrontano con coraggio, e lungimiranza, anche il nostro tasso di crescita potrà alle fine, aumentare. Questo è il problema: ritrovare, dentro di noi, la forza per raccogliere questa grande sfida, ritrovare l'anima dell'Europa, la capacità di una decisione comune, di una forza solidale. Questo problema è sulle spalle della nuova Commissione che avverte le enormi attese su questi temi in essa riposta. L'Euro non è la preoccupazione fondamentale, semmai è condizione necessaria, ma non sufficiente, per la crescita, perché questa viene da un grande spirito di coesione sociale.
8. Non è che oggi in Europa ci siano molti protagonisti attivi della coesione europea; c'è molto più mercanteggiamento, molto spirito contrattuale. Stiamo vivendo una fase storica nella quale se non riusciamo a dare un grande senso della missione, non è facile raggiungere gli obiettivi che abbiamo indicato. Questa è l'Europa che dobbiamo ricreare, riorganizzare, nella quale deve crescere una società civile formata da una varietà di soggetti organizzati portatori di cultura. La nuova Europa si costruisce lasciando fiorire e aiutando la fioritura delle società locali. Quando andate a delle riunioni in cui si usano undici lingue - e fra poco saranno venti - questa è l'Europa e non sono gli Stati Uniti. Guai a lasciar perdere queste ricchezze! L'impostazione dei temi che discutiamo oggi deve essere fatta decidendo qual è la cornice che dobbiamo avere in comune e, in quella, trovare il modo con cui si esprimono in competizione - non solo con il settore pubblico, ma anche fra di loro - le varie interpretazioni della società civile dei diversi Paesi. Guai a noi se non lasciamo questo grande spazio, perché l'Europa non può nascere veramente all'insegna della standardizzazione totale, ma di riferimenti comuni e con una grande libertà. Sotto questo aspetto, devo dire che l'Italia non è certo l'ultimo Paese europeo; non facciamo certo brutta figura nel terzo settore. C'è capacità di sperimentazione, volontà creativa e il mondo cattolico italiano è stato, secondo me, molto più fertile di quello che non si potesse immaginare. Questo vi chiedo di fare nel confronto europeo, di essere molto determinati, insistenti e onesti nell'esporre le sperimentazioni fatte. All'inizio del nostro incontro sono state ricordate tre parole evangeliche: sale, luce e lievito. Se deve essere sale si deve mescolare; se deve essere luce, deve essere conosciuto e illuminare; se deve essere lievito, deve essere collocato nella pasta per farla fermentare.
9. Un'ultima riflessione sul problema occupazionale. Sono molto d'accordo sulla constatazione che il terzo settore stia rompendo i monopoli nel settore pubblico. Attenzione però al fatto che questo si presenta in modo diverso nei differenti Paesi. E il problema del welfare deve essere continuamente allargato e modificato quando viene a contatto con Paesi diversi dal nostro. Questo tocca alcune delicate trasformazioni politiche che non riesco a capire ancora dove vadano a finire, anche se le avverto già con una certa chiarezza. Il Parlamento europeo, ad esempio, è qualcosa di enormemente diverso dal nostro: vi arrivano stimoli e ispirazioni le più diverse e le più molteplici. I gruppi politici che vengono chiamati con i nomi tradizionali - popolari, socialisti... - stanno ormai diventando gruppi così complessi, diversi e frammentati fra di loro che non mi è facile pensare a cosa saranno fra dieci anni queste grandi famiglie politiche. Ritengo che siamo in un grande momento di passaggio. I socialismi sono molto diversificati nelle radici più profonde; tra i popolari ci sono conservatori, nel senso tecnico del termine, e ci sono i cristiano sociali della tradizione fiamminga, italiana padana o di una parte della tradizione tedesca, e fra di loro hanno sempre più difficoltà di dialogo, sia quelli di tradizione socialista sia quelli di tradizione popolare. Ma questo non preoccupa molto perché, nei grandi passaggi storici, se non si cambia rispetto al vecchio, non si costruisce il nuovo. Quello che non si riesce a intravedere è il momento unificatore e questo è il grande problema per cui dobbiamo vivere anni di sperimentazione, di coraggio, di confronto di idee, per ritrovare la volontà di parlarsi. L'elemento unificatore che spingeva De Gasperi, Adenauer e Schuman a parlare lo stesso linguaggio, oggi, non c'è assolutamente. Anche se la realtà europea va avanti e l'esigenza è sentita fortemente. Per assurdo, la guerra nei Balcani, iniziata con un giusto processo contro l'Europa che è stata incapace di fare politica estera, è finita con la grande esigenza di presenza europea, per cui adesso siamo chiamati, su una base anche etica, a fare politica estera e vedremo cosa succederà, quando cominceremo a farla veramente. Abbiamo una responsabilità di fronte a Paesi vicini, molto più poveri e divisi fra di loro, che si stanno massacrando da sette secoli. Abbiamo la possibilità di offrire loro un destino comune, di far parte, un giorno, dell'Unione Europea. Questi paesi continueranno a non volersi bene, e forse a odiarsi fra di loro, ma saranno capaci di convivere fra di loro. Questa è la grandezza e la responsabilità dell'Unione Europea! Affinché serbi e albanesi entrino nell'Unione Europea non è necessario che si amino l'un l'altro, ma che rispettino delle regole comuni, e che ci sia un'autorità superiore che garantisca la convivenza. Dopo qualche tempo, poi, cominceranno anche a volersi bene! Questo è un fatto nuovo nella storia. Non è mai successo che sia offerto a cinque Paesi, che sono in guerra fra di loro, di entrare assieme in una comunità con regole comuni, in cui non c'è né vincitore né vinto. Il popolo serbo, infatti, non entrerà nell'Unione Europea come vinto; entrano tutti i popoli come uguali. Debbo