Porto a tutti il saluto più cordiale e bene augurante dei Vescovi italiani. Dopo che abbiamo ascoltato il Messaggio del Santo Padre, che illumina e orienta queste giornate, non penso di proporvi una vera “introduzione ai lavori”, ma più semplicemente alcuni spunti di riflessione, che esprimono soltanto mie personali, seppur radicate, convinzioni. I nuovi scenari e i nuovi poteri di cui tratterà questa Settimana Sociale si collocano anzitutto a livello internazionale e sono certamente correlati ai grandi rivolgimenti in corso sulla scena mondiale da ormai quindici anni. Non dobbiamo mai dimenticare, infatti, l’anno 1989, del quale abbiamo nell’Enciclica Centesimus annus una illuminante analisi magisteriale, con pregnanti indicazioni per il cammino successivo. Un secondo rivolgimento può essere datato in maniera emblematica all’11 settembre 2001, anche se sono diverse le sue interpretazioni e appaiono difficili le previsioni dei suoi sviluppi. Un terzo grande fenomeno, non altrettanto chiaramente databile, è la cosiddetta globalizzazione, in corso con fasi alterne da oltre un secolo, ma cresciuta più rapidamente dopo il 1989 e forse ostacolata a partire dal 2001. E’ importante comunque avere chiara la sua radice principale, che risiede nello sviluppo delle scienze e delle tecnologie, le quali rendono facili e anche immediate le comunicazioni, gli scambi, le migrazioni, lo stesso terrorismo. Giungiamo così al quarto (e ultimo in questo mio elenco) grande fenomeno: le biotecnologie, nelle quali Nicholas Negroponte ha individuato l’ultima rivoluzione scientifico-tecnologica, dopo quella informatica. Ne consegue una nuova messa in causa, pratica e teorica, del soggetto umano, che apre nuovi scenari e implica nuovi e radicali poteri: perciò ho ritenuto di poter affermare che si è ormai imposta, e crescerà nel futuro, una nuova “questione antropologica”, non meno rilevante, anche a livello pubblico, della questione sociale e di quella che possiamo chiamare la questione politico-istituzionale, nata con il sorgere dei moderni regimi democratici. Ciascuno di questi quattro nuovi scenari ha certamente a che fare con la democrazia, per quanto si voglia dare ad essa un significato prevalentemente formale, come metodo democratico, insieme di regole che definiscono una forma di governo. La democrazia è infatti inevitabilmente condizionata dal tipo di società, di cultura e di concezione dell’uomo entro le quali essa di fatto viene a realizzarsi. Non posso soffermarmi qui sui modi e sulle forme in cui questi scenari internazionali condizionano la vita democratica, in particolare in Italia. Mi limito ad osservare che, dal punto di vista della situazione interna del nostro Paese, la democrazia, e quella sua componente fondamentale che è la libertà politica, appaiono solidamente radicate e non in condizioni di pericolo. Un rischio, se non per la democrazia, per la salute e lo sviluppo complessivo del “sistema Italia”, viene piuttosto dalla tendenza a radicalizzare le contrapposizioni, largamente presente nella nostra politica, ma anche nella nostra società e nella nostra cultura. Vorrei soffermarmi invece sul ruolo che i cattolici possono svolgere nella società italiana, operando in un sistema aperto ed essendo essi stessi legittimamente collocati, dal punto di vista politico-partitico, su diversi versanti e posizioni, senza rinnegare però la propria identità e senza poter rinunciare a dare alla vita sociale, culturale e politica il proprio contributo originale e inconfondibile. E’ bene richiamare a questo proposito le parole pronunciate dal Papa il 23 novembre 1995, al Convegno ecclesiale di Palermo, che hanno indicato con chiarezza la strada, dopo il difficile passaggio degli anni 1992-1994: “La Chiesa non deve e non intende coinvolgersi con alcuna scelta di schieramento politico o di partito, come del resto non esprime preferenze per l’una o per l’altra soluzione istituzionale o costituzionale, che sia rispettosa dell’autentica democrazia (cf. Centesimus annus, 47). Ma ciò nulla ha a che fare con una ‘diaspora’ culturale dei cattolici, con un loro ritenere ogni idea o visione del mondo compatibile con la fede, o anche con una loro facile adesione a forze politiche e sociali che si oppongano, o non prestino sufficiente attenzione, ai principi della dottrina sociale della Chiesa sulla persona e sul rispetto della vita umana, sulla famiglia, sulla libertà scolastica, la solidarietà, la promozione della giustizia e della pace”. Alla luce degli scenari che ho sopra accennato, l’apporto primario dei cattolici alla democrazia, in Italia e a livello internazionale, riguarda la trascendenza del soggetto umano, la sua irriducibilità al resto della natura: essa è oggi da affermare e da “rimotivare” - in maniera non semplicemente ripetitiva del nostro pur grande passato, sia filosofico e teologico sia sociale e politico - all’interno della cultura attuale e degli interrogativi radicali che essa ha aperto. In concreto, una dimensione essenziale di questa trascendenza è l’intelligenza dell’uomo, capace di conoscere la realtà e quindi di trasformarla, e pertanto vero motore della storia. Come è stato osservato proprio in questi giorni, la democrazia e il suo futuro sono strettamente connessi al mantenimento della nostra attitudine a pensare e a riflettere, ossia di ciò che è tipico dell’intelligenza umana. E’ davvero un grande errore, o un grande malinteso, collocare la Chiesa in opposizione agli sviluppi della conoscenza, e in particolare a quelli delle scienze, come gli attuali dibattiti in materia di bioetica potrebbero far credere. E’ indispensabile, a questo proposito, non dimenticare la distinzione tra le scienze e le tecnologie, per quanto sia vero che la conoscenza scientifica progredisce in stretto rapporto con le sue applicazioni tecnologiche. Mentre però queste ultime, come ogni “fare” umano, non possono prescindere dagli indirizzi dell’etica e anche dai limiti che essa pone, radicati in ultima analisi nell’irriducibile differenza tra il bene e il male, il conoscere come tale e il suo incessante sviluppo sono di per sé un grandissimo bene dell’uomo, il segno della sua nobiltà e, come già insegnava Aristotele, il desiderio insito nella sua natura. L’altra dimensione essenziale della trascendenza del soggetto umano è la sua libertà: perciò il nostro giudizio sui fatti del 1989 non può che rimanere altamente positivo, al di là delle difficoltà che possono esserne derivate, come è di per sé positivo ogni altro sviluppo che porti alla dilatazione degli spazi della libertà. Anche il 1989 non ha rappresentato però, e non poteva rappresentare, per la libertà un’affermazione definitiva. Attualmente essa appare insidiata non solo da determinati sviluppi economici o politici, ma più profondamente da quella riduzione naturalistica del soggetto umano che minaccia di svuotare la libertà dal di dentro, negando in radice la sua stessa possibilità ontologica, nel preciso senso, cioè, che l’uomo non sarebbe un essere intrinsecamente libero. Così viene meno il fondamento stesso di quella che Giovanni Sartori, nel suo libro Democrazia e definizioni, ha chiamato la “democrazia dei moderni”, in opposizione alla “democrazia degli antichi”. Una democrazia, cioè, che fa perno sulla libertà della persona e finalmente sul concetto stesso di persona come tale, che ha sempre dignità di fine e non può mai essere ridotta a mezzo: un concetto, questo, la cui affermazione storica è un contributo fondamentale del cristianesimo. Soltanto sulla base di questo concetto di persona, e della sua irriducibilità alla natura, possono avere infatti un senso e una giustificazione quei diritti originari e inviolabili della persona stessa che caratterizzano la “democrazia dei moderni”, a differenza dalla “democrazia degli antichi”. Il discorso sul soggetto umano rimane chiaramente avulso dalla realtà se non si prende in considerazione la sua costitutiva relazione agli altri e al mondo. Proprio nell’ottica delle loro relazioni reciproche, la trascendenza di tutte le persone, il loro valore unico, danno un’impronta decisiva e qualificante anche ai rapporti politici e alle relative istituzioni. Si tratta, in sostanza, del riconoscimento e dell’accoglienza dell’altro come tale, nel suo essere di persona. E’ questa l’espressione per così dire “politica” del comandamento dell’amore del prossimo e di quella “regola d’oro” che ci chiede di fare agli altri ciò che desideriamo gli altri facciano a noi: non sono in gioco soltanto dei precetti etici, ma una decisiva verità antropologica, che chiede di essere realizzata, certo con tutte le necessarie mediazioni storiche, anche in termini politici e in concreto nelle forme della politica democratica, non per far prevalere un ideale aprioristico e in fondo arbitrario, ma per tener conto di quella che è la nostra comune realtà di esseri umani. In questa medesima prospettiva, la pace e la sua progressiva e tenace costruzione appaiono con tutta evidenza un obiettivo irrinunciabile della democrazia, così intesa e qualificata, e naturalmente dell’impegno dei cristiani nella democrazia e per la democrazia. Si tratta chiaramente di una pace che non è soltanto l’assenza di conflitti armati: è quella forma di pace che il Papa, nel discorso del 5 ottobre 1995 alle Nazioni Unite, ha evocato usando l’espressione pregnante: “famiglia di nazioni”. I quattro pilastri della verità, della giustizia, dell’amore e della libertà, sui quali secondo l’insegnamento di Giovanni XXIII si costruisce la pace (Pacem in terris, 18-19 e 49-66), sono in realtà anche i pilastri per l’edificazione di un’autentica democrazia, a livello nazionale e internazionale. Vorrei terminare sottolineando come la fede cristiana, e in concreto le persone che operano sotto la sua spinta interiore, possano esprimere il meglio di sé, anche sul piano della politica e delle istituzioni, quando le circostanze storiche le chiamano a uno speciale impegno per la difesa e la promozione del soggetto umano, della sua intelligenza e della sua libertà, al di là di quell’infausta contrapposizione tra primato di Dio e primato dell’uomo che ha pesato per secoli sulla storia della civiltà occidentale.