di Renata Livraghi - Università di Parma
Lo scopo di questo saggio -di cui si fornisce qui una sintesi, rinviando, per il testo integrale, al file allegato- è quello di iniziare a dare indicazioni sulle dimensioni, sulla composizione e sulle cause che generano povertà nel nostro paese. Definire la povertà non è allora un compito facile e ancor più è quello di doverla misurare.
Le definizioni di povertà sono essenzialmente quattro. Ogni Governo dovrebbe avere una propria linea ufficiale della povertà per valutare gli effetti della politica occupazionale e di quella sociale. Invece, nella maggior parte dei paesi, anche industrializzati, manca una linea ufficiale di povertà. La povertà non è pertanto un obiettivo prioritario della politica economica. D'altro canto, non si riesce a capire com'è possibile tracciare nuove linee di politica sociale, senza avere una linea ufficiale di povertà. Per eliminare la povertà assoluta e attenuare gli effetti estremamente negativi dell'esclusione sociale si deve avere una definizione di base, solida e coerente che permetta di separare le condizioni di vita inaccettabili, che la società non può permettersi di tollerare; condizioni di vita troppo distanti, da quelle medie della popolazione e troppo estreme da generare talvolta scandalo. In altri termini, occorre chiarire il tenore di vita, ritenuto intollerabile, da quello che può essere, in parte tollerato, nel breve periodo ed eliminato nelle fasi successive. La povertà è correlata alla posizione professionale di una persona. Le persone che non hanno redditi da lavoro sono, infatti, quelle che hanno rischi maggiori di trovarsi in situazioni di povertà. Ciò accade anche nella media dei paesi dell'Unione Europea. Le persone disoccupate sono in realtà quelle che non possono concedersi di acquistare taluni beni o di prendersi la libertà di vivere alcune situazioni che procurano benessere come, ad esempio, lo può fare una settimana di vacanza, fuori casa, nel corso di un anno. In Italia, percentuali molto elevate di povertà si rilevano nelle cosiddette "famiglie tradizionali" numerose che sono caratterizzate dalla presenza di due o più figli dipendenti e nelle "famiglie non tradizionali" (famiglie monoparentali o unipersonali condotte da una persona avanti nell'età). I risultati dell'analisi empirica condotta in Italia evidenziano poi che per ogni 100 lire di bisogni minimi equivalenti: 33 lire provengono da reddito da trasferimenti (di cui l'8per cento per le pensioni sociali e di invalidità); 18 lire da reddito da lavoro dipendente; 8 lire da reddito da lavoro autonomo; 5 lire da reddito da capitale reale. Le famiglie povere riescono a soddisfare in media poco più della metà dei propri bisogni minimi, ovvero il 64per cento di essi. Ne deriva che la quota di bisogni minimi non soddisfatta è, in Italia, pari in media al 36per cento . Il reddito da trasferimenti è pertanto la principale fonte di reddito dei poveri in Italia, seguito dal reddito da lavoro. Le fonti di reddito differiscono in maniera rilevante tra le diverse tipologie familiari. In sintesi, dall'analisi delle capacità di soddisfare i bisogni minimi emergono alcune incongruenze e discriminazioni della politica sociale. I poveri, per essere aiutati, devono appartenere ai gruppi che si ritengono "meritevoli". L'importanza relativa dei trasferimenti è elevata per gli anziani (in media, ai non attivi è garantito un sostegno del reddito pari a circa il 50per cento dei bisogni minimi) e modesta per i lavoratori dipendenti (per i quali i trasferimenti si posizionano su livelli di quasi cinque volte inferiori rispetto agli anziani poiché in media la loro quota è pari a circa il 12per cento dei bisogni minimi). I lavoratori autonomi non sono aiutati forse per la presunzione di evasione fiscale. I livelli della povertà e le linee di politica economica da intraprendere per migliorare il tenore di vita delle persone dipendono essenzialmente dalla definizione di povertà che è stata scelta e accolta. Se si tratta di povertà assoluta la situazione nel nostro paese risulta alquanto diversa da quando prendiamo in considerazione la povertà relativa, quella soggettiva o quella che risulta essere strettamente legata agli indicatori di sviluppo umano. E' stato poi rilevato che nel nostro paese non esiste ancora una linea ufficiale della povertà ma esistono numerose linee di tipo amministrativo o statistico. Ciò significa che l'obiettivo alla lotta della povertà non è ancora del tutto prioritario nel nostro paese eppure, come è stato rilevato dall'Ocse, nel corso degli ultimi dieci anni il tasso di povertà sta crescendo in maniera continua così come quello del tasso di disoccupazione. La povertà è associata alla mancanza di reddito o meglio a redditi molto bassi che impediscono di soddisfare i bisogni minimi dell'individuo o della famiglia. Ne deriva che molte cause che generano situazioni di povertà sono collegate al funzionamento dei mercati del lavoro. Questi problemi coinvolgono sia la mancanza dei posti di lavoro sia le condizioni di lavoro (bassi salari, ore di lavoro insufficienti per soddisfare i bisogni minimi). E' anche vero che molte persone non sono in grado di partecipare ai mercati del lavoro per carenze gravi di salute, per la mancanza di servizi per le persone e per la famiglia (servizi di cura per i bambini e per gli anziani della quarta età), per incapacità di fare e di tipo relazionale. Probabilmente, la causa più rilevante delle persone in età attiva è la mancanza di opportunità occupazionali anche se il tasso di disoccupazione non è l'unica causa che genera povertà. è tuttavia evidente la correlazione che esiste tra le due variabili (disoccupazione e povertà): quando cresce la disoccupazione aumenta anche la povertà mentre quando diminuisce la disoccupazione diminuisce anche la povertà. Per riuscire a diminuire la povertà si richiede allora di conoscere le cause che determinano la disoccupazione, quali sono gli individui che hanno un rischio di disoccupazione più elevato, quali sono gli individui che sono maggiormente interessati a situazioni di disoccupazione di lunga durata e quali sono gli interventi di politica economica in grado di generare nuovi posti di lavoro. Dall'analisi effettuata emergono alcune indicazioni per tracciare interventi in grado di migliore le condizioni di vita nel nostro paese: - si è visto che la povertà non ha "classi"; essa colpisce tutti i gruppi e tutte le categorie. L'art. 38 della Costituzione riconosce un diritto al mantenimento e all'assistenza sociale a tutti i gruppi poiché riconosce un diritto agli inabili sprovvisti di mezzi necessari e ai lavoratori in caso di infortunio, malattia, invalidità, vecchiaia e disoccupazione involontaria; - sorge allora la necessità di estendere l'applicazione dei criteri di equità orizzontale tramite il riconoscimento di un reddito minimo; - l'obiettivo di conseguire un "minimo vitale" può essere raggiunto tenendo conto dei bisogni minimi che sono diversi da individuo a individuo e da famiglia a famiglia e della diversa capacità di produrre reddito. Il metodo dei bisogni minimi, delle risorse e delle tipologie familiari può servire per rendere credibile l'azione dello Stato a condizione che si adotti una linea ufficiale di povertà e che i diversi programmi di politica del lavoro e di aiuto sociale siano integrati e interrelati. In ogni caso, la crescita economica è condizione necessaria anche se non sufficiente per diminuire la disoccupazione, la povertà e la diseguaglianza nel nostro paese; - la giustizia, che si basa sull'uguaglianza delle opportunità, imporrebbe una serie di interventi specifici, mirati e opportunamente delineati, per diminuire l'esclusione sociale che anche nel nostro paese sta incominciando a manifestarsi e a crescere.