UFFICIO NAZIONALE PER I PROBLEMI SOCIALI E IL LAVORO
DELLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA

Animazione spirituale

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23 Marzo 2000

aver donato se stesso, perché Gerusalemme sarà il luogo del dono ultimo. La salita a Gerusalemme implica questo lasciapassare, che è simbolo del dono della vita; implica questa capacità di coinvolgere gli altri nello stesso dono di sé, partecipi del medesimo progetto. In questo Samaritano, è evidente, Gesù adombra se stesso, ciò che sta per compiere a Gerusalemme ed è per noi un invito alla sequela. Il cammino di condivisione passa attraverso un cammino di conversione: non un girarsi dall'altra parte senza lasciarsi sfiorare dagli appelli urgenti e silenziosi dell'altro, ma avvicinarsi, sentire compassione, partecipare insieme alla stessa realtà di fatica e di dolore. In questo senso "il Paese non crescerà se non insieme", anzi si salverà solo così, quando leggeremo questa pagina del Vangelo nella prospettiva di una vita donata. Il Sud non ha bisogno di cose, ma di gente che si dà. Il prezzo? Una vita spesa. La nostra vita. Concludo con un augurio per tutti che prendo da Thomas Merton: "Tenete limpidi gli occhi, tranquille le orecchie, serena la mente. Respirate l'aria di Dio. Lavorate, se potete, sotto il suo cielo". "Va' e anche tu fa' lo stesso". I. Due immagini dell'uomo, oggi
Gen 11,1-9
"Tutta la terra aveva una sola lingua e le stesse parole. Emigrando dall'oriente gli uomini capitarono in una pianura nel paese di Sennaar e vi si stabilirono. Si dissero l'un l'altro: "Venite, facciamoci mattoni e cuociamoli al fuoco". Il mattone servì loro da pietra e il bitume da cemento. Poi dissero: "Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra". Ma il Signore scese a vedere la città e la torre che gli uomini stavano costruendo. Il Signore disse: "Ecco, essi sono un solo popolo e hanno tutti una lingua sola; questo è l'inizio della loro opera e ora quanto avranno in progetto di fare non sarà loro impossibile. Scendiamo dunque e confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l'uno la lingua dell'altro". Il Signore li disperse di là su tutta la terra ed essi cessarono di costruire la città. Per questo la si chiamò Babele, perché là il Signore confuse la lingua di tutta la terra e di là il Signore li disperse su tutta la terra".
La parola che abbiamo ascoltato ha una forza straordinaria e ci interpella. Siamo davanti alla Parola di Dio, Parola che riempie e dà senso alla nostra vita; abbiamo ascoltato il racconto della torre di babele, una storia da non banalizzare perché mette in questione proprio il problema del progetto umano. Emergono alcune domande: Che cosa vogliamo costruire? Che cosa vogliono costruire gli uomini? Quale finalità nel nostro lavoro? Veniamo al nostro testo. C'è un'emigrazione di popoli dall'Oriente. Non è un caso. C'è uno spostamento - con tutta la fatica che questo può comportare - motivato dalla ricerca di un bene che il luogo della mia origine non mi può garantire. C'è un allontanarsi... dall'Oriente! Lo spostarsi indica già una tensione verso..., un desiderio, o forse una fuga! Questi uomini, dice il testo, "hanno una sola lingua e le stesse parole", hanno lo stesso ideale, si ritrovano con gli stessi desideri, con le stesse intenzioni. Capitano in una pianura; Sennaar, la Mesopotamia (sappiamo come nell'antichità fosse considerato un territorio invidiabile, fertile e ricco di risorse), che viene scelta come luogo adatto per la costruzione della città e di una torre. C'è una ragione pratica: la città deve accogliere tutti, in pianura c'è più spazio. E qui affiora l'idea di qualcosa di nuovo. Nell'antichità, infatti, le città venivano costruite sui monti per motivi di sicurezza, ma anche perché la montagna forniva abitualmente il materiale per la costruzione. Qui la città sulla pianura è la vittoria dell'artificiale. intesa come l'arte dell'uomo, la vittoria dell'homo faber che vuole sostituirsi a ciò che è naturale, a ciò che è fatto da Dio. Infatti l'uomo usa espressioni di tipo creativo: "Venite, facciamo mattoni e cuociamoli al fuoco". L'uomo fabbrica, crea, plasma... ha una volontà creatrice. C'è nel progetto umano, in qualsiasi opera che l'uomo può fare, il desiderio di essere come Dio, ma soprattutto cogliamo fra le righe il desiderio di fare qualcosa di "diverso" da lui, di modificare la sua opera. "Venite, costruiamo una città e una torre..." Nella costruzione della città - che di per sé rappresenta il luogo dove tutte le valenze dell'intelligenza possono essere messe a frutto, dove ogni attività di ordine economico, politico, religioso è coordinata al ben comune - c'è qualcosa di ambiguo. E' qui il punto. L'A.T., in particolare, ha un atteggiamento critico nei confronti della città. Possiamo evidenziare due aspetti: 1) La città con le sue costruzioni (torri, mura, palazzi, il palazzo del re, il tempio) è in sé un progetto alienante per il popolo che rischia di venire ridotto in condizione di schiavitù per servire un'idea che, di fatto, è di prestigio per il sovrano. La costruzione si riveste di una ideologia, quella del bene comune visto come una sicurezza da perseguire a qualsiasi costo: gli uomini non s ono più guidati da qualcosa che li fa vivere, ma da qualcosa che li schiavizza. A questo proposito, c'è un midrash sulla torre di Babele che illumina questo aspetto. Si dice che gli uomini si danno tanto da fare per edificare la torre, da suddividere il lavoro: gli uomini costruiscono, le donne fanno i mattoni, i vecchi e i bambini cercano la paglia... Tutti sono impegnati in questa impresa che diventa "l'impresa", il progetto fondamentale della città, a tal punto che la torre diventa così alta che per raggiungere la cima ci vuole un anno di cammino! Succede qualcosa di assolutamente fondamentale: è più importante che un mattone arrivi in cima, piuttosto che curarsi della vita di un uomo: se cade un mattone è una tragedia: un anno perso! Se muore un uomo, non importa, bisogna andare avanti! Accade che tutti sono soli: le donne quando partoriscono sono sole e non c'è nessuno che possa accogliere i bambini; quando uno muore, muore solo perché non c'è tempo di occuparsi di chi muore. La città deve crescere, mattone dopo mattone... E' l'asservimento ad un progetto! Questo è il primo aspetto della città. 2) Il secondo aspetto è collegato al precedente. Qui si parla di Babele = Babilonia. Come dire una grande città dell'antichità: Ninive, Roma, Tebe, Alessandria... E' la città che diventa impero, simbolo di n dominio esteso a tutti, quindi emblema dell'autosufficienza. Una città impero esclude l'altro, diventa una città dove il diverso è nemico e l'unico modo perché sussista è inglobarlo! Le frontiere anche linguistiche invece, sono segno di un'alterità che va rispettata! E' ben diverso il caso di Pentecoste dove gli uomini si capiscono nella diversità: c'è un dono che scende dall'alto e che permette agli uomini di vivere una unità che non è uniformità ma comunione! "Venite, costruiamo una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo..." C'è una città e c'è una torre: la torre esprime la forza dell'uomo riconciliato apparentemente con l'ambiente natural e; è protesa verso il cielo! E' una grande impresa titanica! La montagna, simbolo del contatto naturale tra terra e cielo, è sostituita in pianura da una costruzione che si presenta come espressione di una tensione verso il divino. La stessa torre al tempo stesso è una reggia, una banca, un tempio. E' il grande emblema di riferimento per i sudditi di questo Stato, la centrale di governo, il deposito delle ricchezze, la garanzia di una benedizione sacra! C'è tutto. Ma qual è la finalità di tutto questo? "Facciamoci un nome per non disperderci su tutta la terra". In tutta questa grande impalcatura, appare una profonda angoscia. E se ci disperdessimo? Dunque: facciamoci un nome, diamoci una dignità, coalizziamoci, dimostriamo la nostra capacità. In realtà nel testo biblico, il desiderio di farsi un nome, svela la contrapposizione al nome per eccellenza, il nome di Dio, la sua persona. Un altro volto del peccato dell'origine. La tentazione "sarete come Dio", tradotta nel progetto di Babele. Nel nome il desiderio di eterno, un'opera che duri nel tempo e che nasconda la mia morte. Questo riguarda non solo la città, questo è il problema del progetto, di che cosa l'uomo vuol fare di eterno. Il problema è vedere se per creare l'unità, per non essere dispersi, si debba costruire qualcosa che rinchiude, oppure mettere al mondo qualcosa che crei l'unione dei cuori e delle anime. Per essere uniti dobbiamo costruire prigioni anche molto piccole, tascabili o invisibili, oppure dobbiamo liberare gli uomini? Questo è possibile solo ricevendo da Dio un dono. L'uomo vuole salire al cielo? Ed ecco Dio scende. Questo progetto dell'uomo articolato così, in base alle proprie forze è pericoloso per l'uomo perché rappresenta il consolidarsi di una posizione di presunta onnipotenza, di orgoglio che cresce, che gonfia, che è impostura, menzogna. Dio scende e pone nella condizione di impotenza: è l'abbattimento dei superbi (Cfr. Lc 1,51-52): "Ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore".
La dispersione a Babele certifica l'arrogante presunzione dell'uomo che vuol farsi da sé, a Pentecoste, invece, sarà il segno - nell'impotenza - della benedizione e l'occasione dell'annuncio del Vangelo alle genti. Il punto non è costruire temendo la dispersione o la diversità, ma costruire pregando, mettendo la nostra intelligenza nelle mani del Creatore. "In Lui ogni costruzione cresce ben ordinata per essere tempio santo del Signore. In Lui anche voi insieme con gli altri, venite edificati per diventare dimora di Dio per mezzo dello Spirito" (Ef 2,21-22)
Mt 1, 16-19 "Ma a chi paragonerò io questa generazione? Essa è simile a quei fanciulli seduti sulle piazze che si rivolgono agli altri compagni e dicono: Vi abbiamo suonato il flauto e non avete ballato, abbiamo cantato un lamento e non avete pianto. E venuto Giovanni, che non mangia e non beve, e hanno detto: Ha un demonio. E venuto il Figlio dell'uomo, che mangia e beve, e dicono: Ecco un mangione e un beone, amico dei pubblicani e dei peccatori. Ma alla sapienza è stata resa giustizia dalle sue opere".
Accanto a questa umanità che vuole salire al cielo, c'è un'altra immagine che prendiamo dal Vangelo. Il contesto più ampio, sino al v. 30, è la delusione che Gesù sperimenta nei confronti delle città in cui ha operato più miracoli: Corazin, Betsaida, Cafarnao. Il Signore costata il rifiuto da parte delle città che non accolgono colui che è inviato da Dio: prima Giovanni Battista e poi Gesù. Queste città chiuse in se stesse, sono svuotate della loro stessa vita; una città senza Dio è senza vita. Per cui potranno suonare la melodia più sublime, ma il nostro cuore chiuso non permetterà al piede di sciogliersi alla danza; potranno cantare un lamento, ma non ci sarà più un fremito di tenerezza e di compassione. L'impermeabilità regna sovrana. Non si muove una foglia. Ogni iniziativa è stroncata sul nascere, l'incapacità di agire genera l'immobilismo. Un gruppo d i bambini che non ha identità: spettatore passivo della storia che non si accorge di essere la sua! Il cuore è chiuso e indurito: una realtà che ci accomuna tutti: l'autosufficienza ci rende ciechi e insensibili a quello che succede agli altri, chiamiamolo Sud (qualunque esso sia); e il dolore per sofferenze ataviche si esprime con una diffidenza che è incredulità, rifiuto di ricevere, di accogliere la Parola che salva. "Ma alla sapienza è stata resa giustizia dalle sue opere". Lasciamo costruire alla Sapienza la sua casa (cfr. Pr 8), offriamo l'impotenza delle nostre mani!
II. Il lavoro come solidarietà Mc 6, 30-43
"Gli apostoli si riunirono attorno a Gesù e gli riferirono tutto quello che avevano fatto e insegnato. Ed egli disse loro: "Venite in disparte, in un luogo solitario, e riposatevi un po'". Era infatti molta la folla che andava e veniva e non avevano più neanche il tempo di mangiare. Allora partirono sulla barca verso un luogo solitario, in disparte. Molti però li videro partire e capirono, e da tutte le città cominciarono ad accorrere là a piedi e li precedettero. Sbarcando, vide molta folla e si commosse per loro, perché erano come pecore senza pastore, e si mise a insegnare loro molte cose. Essendosi ormai fatto tardi, gli si avvicinarono i discepoli dicendo: "Questo luogo è solitario ed è ormai tardi; congedali perciò, in modo che, andando per le campagne e i villaggi vicini, possano comprarsi da mangiare". Ma egli rispose: "Voi stessi date loro da mangiare". Gli dissero: "Dobbiamo andar noi a comprare duecento denari di pane e dare loro da mangiare?". Ma egli replicò loro: "Quanti pani avete? Andate a vedere". E accertatisi, riferirono: "Cinque pani e due pesci". Allora ordinò loro di farli mettere tutti a sedere, a gruppi, sull'erba verde. E sedettero tutti a gruppi e gruppetti di cento e di cinquanta. Presi i cinque pani e i due pesci, levò gli occhi al cielo, pronunziò la benedizione, spezzò i pani e li dava ai discepoli perché li distribuissero; e divise i due pesci fra tutti. Tutti mangiarono e si sfamarono, e portarono via dodici ceste piene di pezzi di pane e anche dei pesci".
Il testo inizia mettendo in evidenza un contrasto. I discepoli tornano dalla loro prima missione. Desiderano comunicare a Gesù il loro vissuto. Ed ecco il desiderio di allontanarsi un po' dalla folla, di trovare un luogo adatto per comunicare in modo più intenso e affettuoso, più prolungato e tranquillo con Gesù, senza interruzioni. Ma la folla intuisce e addirittura li precede e Gesù si commuove per loro, perché - dice il testo - "erano come pecore senza pastore". La commozione di Gesù è un fremito delle viscere, come dice letteralmente il testo greco; è qualcosa di molto profondo che si è mosso dentro. C'è qualcosa, in noi qui al Sud, di viscerale; qualcosa di riconducibile a questa passionalità che va evidentemente canalizzata. In positivo è percepire dentro il bisogno dell'altro e farsene carico; è accoglienza, è intuizione. Gesù è toccato da questa moltitudine affamata di Lui e dispersa. Cade il progetto iniziale - almeno così sembra - di accogliere i suoi e, invece, accoglie questa gente e insegna loro molte cose. Gesù si consegna, dà se stesso attraverso la sua Parola. La folla lo ascolta - è venuta per questo - senza avvertire stanchezza o impazienza! Marco - rispetto a tutti gli altri evangelisti, sottolinea che la Sapienza di Dio è all'opera. Sembra di ascoltare la parola del salmista: "Apro anelante la bocca perché desidero i tuoi comandamenti" (Sal 119,131). Gesù parla alla gente, la nutre con la sua Parola, li guarisce (dicono gli altri evangelisti), ma "ormai si è fatto tardi". Luca sottolinea che "il giorno volge al declino", usa un'espressione che ritroviamo soltanto nel testo dei discepoli di Emmaus... anche lì Gesù Risorto "sfama" i suoi... E' tardi... Affiora il senso della morte, la rivelazione della natura mortifera di questo luogo deserto (si parla di èremos). Il Padre ha voluto di fatto che le folle seguissero Gesù, perché in questo deserto e in questo giorno che declina, potesse rivelarsi la sua capacità di nutrire l'uomo. La situazione è difficile; i Dodici si preoccupano e vorrebbero un'iniziativa risolutiva: abbandonare questa gente; elegantemente viene detto: "congedali, licenzia le folle". Nei testi paralleli si insiste sul fatto che non c'è soluzione, non c'è denaro e anche se ci fosse non ci sarebbero i panettieri e poi... come trasportare tutto questo in un deserto? E' un espediente narrativo per dire che evidentemente non c'è più niente da fare. E' il simbolo delle situazioni irrisolvibili che portano alla sfiducia: noi non possiamo far niente, quindi anche Dio non può far niente. Gesù li provoca: "Date loro voi stessi da mangiare". I discepoli hanno stabilito già un bilancio della spesa, perché solo comprando si può fare qualcosa. E poi? Dobbiamo andare noi a comprarlo? C'è il problema del trasporto, della lontananza... Ebbene questa provocazione di Gesù: "Date loro voi stessi da mangiare", fa scoprire che essi hanno cinque pani e due pesci. Anzi, l'evangelista Giovanni dice che è un ragazzo a mettere questo a disposizione: una piccola presenza che sembra assolutamente insignificante: cos'è questo per tanta gente? E' come se non ci fosse niente, però Gesù lo mette in luce, li fa sedere sull'erba verde: quel deserto è già diventato un giardino. Non è ancora successo niente, ma, queste pecore erranti, stanno riconoscendo il loro pastore. C'è un richiamo al salmo 23: "Su pascoli erbosi mi fa riposare" . Ed ecco Gesù rende grazie, cioè riconosce in quel piccolo dono la presenza di Dio nella storia e benedice per il dono della vita. L'azione di grazie per il dono presente è condizione essenziale perché esso riveli la sua forza vitale. Dobbiamo guardare con gli occhi di Gesù la nostra realtà, dobbiamo alzare, come Lui, gli occhi al cielo. Gesù riconoscendo il dono, compie un gesto ancor più paradossale: lo spezza. Il pane è talmente poco che basterebbe forse solo a uno; Gesù lo spezza come se il dono rivelasse la sua potenza nel rendersi ancor più piccolo. Quel poco pane, quel poco pesce condiviso basta per tutti, sazia tutti, anzi c'è una raccolta di resti più abbondante del pane che avevano all'inizio, quasi che il Signore volesse farci comprendere che Egli continuerà ad essere presente nella nostra storia. Ciò che Gesù ha fatto condividendo, è un appello a rendere concreto, reale, ad attualizzare nella nostra esistenza ciò che celebriamo nel sacramento dell'Eucarestia. Di fronte all'enormità dei problemi, dei bisogni del mondo, ma - senza andare lontano - di fronte a quello che tanti uomini, tante donne, tanti giovani si aspettano da noi, che fare? Spesso sentiamo di non poter fare niente o le possibili soluzioni appaiono dei palliativi o comunque lontane nei tempi di realizzazione. Siamo chiamati ad un atto di fede straordinaria: se siamo qui è perché non possiamo lasciarci cadere le braccia, ma dobbiamo aprire le mani, prendere quello che abbiamo e offrirlo, condividerlo; questo significa: te lo do, non è più mio. Occorre lavorare perché altri lavorino. Non si dona una "cosa", ma l'amore e l'amore è così potente che opera miracoli, ridona la speranza, alimenta la vita, diventa il nutrimento per il mondo. Non serve, in questo caso, calcolare troppo quello che abbiamo: se lo doniamo, alimenta tutti: Ieri abbiamo citato la Pentecoste; ebbene, nella prima comunità cristiana dopo il dono dello Spirito Santo, tutto viene condiviso e avviene il miracolo che nessuno è nel bisogno! Non si tratta di far beneficenza, né di mettere in ristrettezza, ma di fare uguaglianza (cfr. 2Cor. 8,13). Anche il lavoro va condiviso, senza gelosia o arrivismo, perché la condivisione è ciò che fa vivere tutti, perché è amore e ciò che fa vivere è l'amore e non il mangiare le cose. "E' ormai tardi, il giorno declina....", siamo al tramonto del sole... Qui come a Emmaus (cfr. Lc 24,13-35), quando tutto volge alla fine, un segno: il pane spezzato. I discepoli raccolgono le ceste, i due viandanti tornano a Gerusalemme, per noi si apre un cammino di condivisione. E' un insegnamento anche per i discepoli, per noi qui oggi. Tornati dalla loro missione, sperano di ricevere ascolto, riconoscimento e si ritrovano ancora a dover dare, dare se stessi. E' l'immolazione. E' la strada di Gesù che "da ricco che era, si fece povero per arricchire noi della sua povertà" (2Cor 8,9). Non c'è altra strada. Il resto è solo espediente.

III. Un cammino di conversione
Lc 10,30-37 "Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e incappò nei briganti che lo spogliarono, lo percossero e poi se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e quando lo vide passò oltre dall'altra parte. Anche un levita, giunto in quel luogo, lo vide e passò oltre. Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto lo vide e n'ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi, caricatolo sopra il suo giumento, lo portò a una locanda e si prese cura di lui. Il giorno seguente, estrasse due denari e li diede all'albergatore, dicendo: Abbi cura di lui e ciò che spenderai in più, te lo rifonderò al mio ritorno. Chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti?". Quegli rispose: "Chi ha avuto compassione di lui". Gesù gli disse: "Va' e anche tu fa' lo stesso"".
Siamo in viaggio. E' il viaggio della vita. Sappiamo che l'evangelista Luca compone tutto il suo vangelo guardando Gesù che sale a Gerusalemme. Tutto il vangelo è il lungo viaggio di Gesù verso la città santa. Mentre Gesù sale, c'è qualcuno che scende, che si allontana da Gerusalemme. E' l'emblema di chi ha sbagliato strada, di chi si perde. Alla fine del vangelo di Luca, altri due si allontanano da Gerusalemme - li abbiamo citati anche ieri - sono i due discepoli di Emmaus. Si allontanano anche loro dalla loro origine, dalla loro meta. A partire dalla grande migrazione di popoli, che abbiamo visto il primo giorno, siamo oggi coinvolti in un altro viaggio, più "domestico", ma che ha sempre la stessa matrice: c'è un errore di prospettiva, c'è uno sbagliare direzione che ha il sapore di una fuga... Quando ci si immette in questo circuito, si è facilmente preda dei briganti. E' quanto succede a quest'uomo che viene aggredito e dilaniato. E' ridotto a relitto umano, lo lasciano "mezzo morto". L'esperienza di essere depauperati, defraudati, aggrediti, è fortissima perché non tocca solo il bene che ci è stato portato via, ma la nostra stessa persona; in quel bene ci siamo noi, la nostra storia. Questo è valido a livello personale, ma è anche vero nella storia dei popoli, violati nella loro identità, nella loro personalità, ridotti a nulla. Capita che per quella strada altre persone scendano. Conosciamo la storia: "Per caso un sacerdote scendeva per la medesima strada e quando lo vide passò oltre dall'altra parte. Anche un levita, giunto passò oltre...". Ci possiamo chiedere come mai un sacerdote si allontanasse dal tempio - che è il luogo del suo ufficio - e così il levita... E poi non si avvicinano a quest'uomo ferito; vogliono mantenersi nella purità legale e evitare il contatto... quante omissioni per salvare noi stessi, l'apparenza! Dice il testo: "Avendolo visto, girò dall'altra parte"; non si tratta di non toccarlo, ma di non volerlo neanche vedere. Girano la faccia. E' da notare che tutti scendono. L'unico che sale è un Samaritano. Anche qui un paradosso. Cosa ci va a fare un Samaritano a Gerusalemme? A causa di antiche rivalità religiose, un Samaritano a Gerusalemme è uno scomunicato, rischia seriamente. Forse, in condizioni normali, quel tale "mezzo morto" non accoglierebbe l'aiuto di un Samaritano, ma ora non può fare diversamente. Vorrei sottolineare i verbi che ci indicano una pedagogia dell'incontro, la pedagogia di Dio: "Venne presso di lui", qui cogliamo il senso dell'incarnazione del Figlio di Dio, il suo farsi prossimo, uomo tra gli uomini. E' l'esperienza di Dio che visita il suo popolo. "Avendolo visto", non gira dall'altra parte, ma "ha compassione": è lo stesso fremito delle viscere che ha provato Gesù prima della moltiplicazione dei pani (stesso verbo); "avvicinatosi gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino": sappiamo che i Padri della Chiesa in riferimento all'olio e al vino hanno visto in anticipo i sacramenti della Chiesa - poi "caricatolo sopra il suo giumento"; anche in questo caso troviamo lo stesso verbo usato per l'ingresso di Gesù a Gerusalemme, in quella salita determinante e definitiva. E' un discorso di ospitalità, gli cede quel posto che era il suo. Vedete il rapporto diventa più intenso. Giungono finalmente alla locanda. C'è un luogo - vi prefiguriamo già la Chiesa - capace di accogliere... ma ciò che è stupefacente, è la capacità di questo Samaritano di "perdere il suo tempo" per salvare una vita, "per prendersi cura di lui". La situazione lo costringe ad un discernimento immediato: non una rinuncia del proprio programma, ma una dilazione. Si tratta di fare il possibile perché l'altro viva e poi di proseguire il cammino. Non ci sono scusanti o pretesti. Prosegue, ma prima si prende cura, forse lo veglia per tutta la notte e dà il suo denaro all'albergatore. Spende di tasca propria; non solo, ma coinvolge l'albergatore in questo atto di generosità. E' la capacità di coinvolgere altri in un atto di fiducia testimoniato in anteprima dalla vita di questo Samaritano. Il denaro è nel Vangelo simbolo del pagare di persona. E' quanto farà Gesù: "Siete stati comprati a caro prezzo" (cfr. 1Cor 7,23). Il denaro spesso è una cifra! E' quello che si possiede che viene speso: le proprie energie, le proprie forze, ciò che ci fa vivere, è per gli altri. Il Samaritano può salire a Gerusalemme, può proseguire il suo programma sol o dopo