UFFICIO NAZIONALE PER I PROBLEMI SOCIALI E IL LAVORO
DELLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA

Per una giustizia globale: magistero sociale e responsabilità per la terra

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9 Novembre 2001

n termini di crisi ecologica è una chiamata a svilup pare la nostra dottrina, ed anche la dottrina sociale della chiesa, ma soprattutto e più di tutto, … è diventare un invito a tutti noi cristiani. Grazie.

"Magistero sociale e responsabilità per la terra"
Sono stato invitato per dare un contributo sulla giustizia globale, il magistero sociale, la responsabilità per la terra. Non ho scelto io questo tema, ma ubbidientemente ho cercato di trovare qualcosa che possa soddisfare chi ha formulato questo titolo. Magistero sociale e responsabilità per la terra è, dunque, il mio tema. I cristiani, ho trovato in un testo dell'attuale presidente dell'Istituto europeo di ecologia, hanno una significativa responsabilità nella battaglia per l'ambiente, perché sono i figli di una terra che gli è stata data in eredità. Questa parola "eredità" ricorre ogni tanto negli scritti del botanico francese, poiché il motivo della terra ereditata esprime per lui la fede del cristiano e costituisce un campanello d'allarme per numerosi problemi dell'ecologia: il riscaldamento climatico, la sfida degli organismi geneticamente modificati, il problema largamente irrisolto dei rifiuti nucleari, quella che si può chiamare la guerra dell'acqua, il pericolo della polluzione dell'aria e quello della tossicità chimica e così via. In effetti nella lotta su tutti questi problemi i cristiani dovrebbero essere in prima fila; supportata da un corpo impressionante di documenti del Magistero sociale, ci si aspetta che anche la Chiesa alzi la voce contro le molteplici minacce che oggi vengono inferte al creato, ma è un compito abbastanza duro e che richiede un impegno duraturo. Dobbiamo cominciare davvero a scrivere una carta per la terra, come quella di cui parlava Leonardo Boff, durante la Conferenza mondiale di Rio.
La giustizia Ho diviso la mia esposizione in tre punti; il primo è il concetto della giustizia, primo, credo, anche dell'etica ecologica. Nella dottrina sociale della Chiesa non c'è dubbio: la giustizia sta al centro e ci pone esigenze immediate. Possiamo dire che dobbiamo mantenere la priorità di questo concetto anche quando affrontiamo il tema della crisi ecologica ma per questo è nece ssario prima definire un po' cosa sia la crisi ecologica. Dico subito che ci sono diversi modi di affrontare la questione: in un primo approccio il disordine ambientale viene percepito come il risultato di un errato trattamento della terra e di un selvaggio sfruttamento delle risorse naturali. Alla base di questa diagnosi sta l'intuizione che si è scelto un metodo di agire sulla nostra terra tramite un sistema economico industriale manipolato e strumentalizzato da una logica di mercato sempre più esigente. E ciò è vero sia per l'agire semplice e spontaneo, ma anche per quell'agire sistematico, che si mostra nella tecnica che usiamo e nell'economia di mercato. Quando si affronta la crisi ecologica da questa prospettiva, naturalmente si ha in mente la necessità di cambiare l'agire, di cambiare il sistema, con un metodo di precauzione. Un secondo approccio spiega la crisi dell'ambiente come accumulazione eccessiva di ciò che resta del prelievo dell'uomo dalla terra. Parlo in questo contesto dei rifiuti della società industriale, secondo un approccio che si concentra totalmente su quello che è alla fine del processo. Qui, dunque, non si guarda prioritariamente all'agire come tale, ma all'output del processo; in una parola, ai rifiuti, che rimangono quando l'uomo ha trattato la terra e ha fatto il suo lavoro su di essa. In quest'altro modo di intendere la crisi dell'ambiente, l'attenzione si concentra sui rifiuti, come ho già detto; la crisi ecologica appare, allora, come un vasto disordine creato tra le rovine e i ruderi e lasciato in eredità alla generazione presente e futura. Possiamo facilmente illustrarlo quando passiamo per le strade e le case della nostra città e anche in qualche zona dei nostri Paesi. Per affrontare la crisi, si fa allora tutto il possibile per liberarsi da questo ingombrante prodotto di scarto. Quello che si può fare è di disporne, per quanto è possibile oggi, di ricomporlo e combinare nuovamente i diversi elementi ivi contenuti, togliendo d i mezzo il pericolo mortale che può risultarne per la terra e la vita. Dunque è tutto un diverso approccio alla crisi ecologica, che si concentra sulla possibilità di liberarci dei sottoprodotti negativi della nostra azione. I rifiuti rappresentano oggi uno dei nodi più urgenti dell'ecologia, come dimostra recentemente anche l'emergenza rifiuti creatasi in Campania, ma certamente dappertutto noi avremo il grande problema dei rifiuti nucleari e ci sono tanti altri relitti della nostra società industriale che ci creano problemi. Procedendo in questo approccio non mi limito a sottolineare dunque il nostro agire ma parlo di questo prodotto che segna quasi fatalmente la fine del processo tecnico industriale e credo che proprio guardando ad esso si possa vedere anche un po' come la giustizia formi un concetto molto significativo anche per la crisi ecologica. Il problema sarebbe soltanto di nuovo di dire cosa sono i rifiuti.
I rifiuti: cosa e per chi Il primo punto, che coinvolge la giustizia: i rifiuti si conoscono dalla gente. Si deve trovare un metodo per indicare cosa sono i rifiuti nella nostra società e nel nostro sistema economico e per questo si dovrebbe entrare in una lunga discussione perché i rifiuti sono diversi per un biochimico, diversi per un ecologo, diversi per uno che considera il paesaggio un bene culturale. E' comunque chiaro che i rifiuti sono realtà che resistono alla reintegrazione nel ciclo naturale e sono quindi elementi difficilmente riconciliabili con quello che noi chiamiamo natura. Ma, accanto a questo modo scientifico di definire i rifiuti, c'è n'è forse uno più democratico, meno professionale ma comunque efficace. Può sembrare un metodo grossolano ma lo si è usato con successo per secoli. Secondo questo approccio, i rifiuti sono primariamente quei materiali che creano effetti di ripudio e di disagio ai sensi dell'uomo, non soltanto all'olfatto. Certamente l'uomo medio rifiuta di associarsi con essi; facilmente nutre nei loro confronti un rifiuto, associato a un senso di colpa per averli prodotti; volentieri vorrebbe nasconderli oppure scaricarli aggressivamente addosso a un altro. Nella storia di questa definizione abbiamo anche dei casi molto strani. In Germania nel Medio Evo, c'era un termine che indicava lo scavatore dell'oro: in verità si trattava non di qualcuno che cercava o trattava l'oro ma di uno il cui mestiere si occupava di cose maleodoranti e ripugnanti: lo svuotamento delle cloache. Nel tempo moderno i deprezzati manipolatori di rifiuti erano i gitani; in India lo sono fino ad oggi i paria; nella Berlino del '600 la rimozione dei rifiuti era lasciata ai carnefici; le donne in molte società avevano spesso un ruolo speciale per quanto riguardava la pulizia delle città e la disposizione dei rifiuti. A Vienna veniva imposta la pulizia delle strade alle prostitute, alle quali, come espressione del loro stato di ignobili, veniva fatta rasare la testa. Nella capitale degli USA, come anche in molti Paesi europei, spettava agli ultimi gruppi di immigrati di prendere su di sé il lavoro sgradevole dello scarico dei rifiuti. Insomma, la storia ci insegna che quasi universalmente il fastidio della vita umana e dei suoi rifiuti veniva delegato all'uomo di stato inferiore, ai mosconi e agli avvoltoi della razza umana, agli ultimi della terra. Perché proprio essi erano maggiormente esposti al recupero dei rifiuti? Perché si sono scelti sempre questi gruppi di poca rilevanza o di stato inferiore? Presumibilmente perché raggiungono con la loro esistenza la zona della morte, come anche i rifiuti simbolizzano la fine della morte. E cosa avviene oggi? Non è molto diverso. Il problema dei rifiuti grava ancora oggi su quegli uomini e donne che non possono sottrarsi a questo lavoro infame e sono costretti a farsi schiavi dei protagonisti della società industriale, che non vogliono riflettere a fondo sulle implicazioni dell'energia nucleare e del traffico individuale. Dunque, è sempre un gruppo molto e sposto - o nel nostro Paese stesso o in un Paese straniero - che deve ricevere i rifiuti della nostra società industriale. Che siano Paesi africani, ai quali si trasportano i nostri rifiuti o altri Paesi, c'è sempre una connessione con gruppi persone senza scrupoli, pronte a far di tutto per compiacere il potere. Sono i mafiosi che prendono i depositi esistenti e li trasportano su treni e navi in Paesi poveri, che a causa del loro scarso sviluppo possono essere comprati e costretti ad accettare questa merce indesiderata. Dunque sono loro i mediatori dello scarico dei prodotti di scarto dello sviluppo tecnico ed economico sulle spalle degli indifesi e dei poveri. E chiaro che qualche volta queste procedure sono legittimate dai nostri processi politici. Accade talvolta che amministratori internazionali, membri del governo, membri dei partiti condividano quella divisione utile, gradevole e molto comoda della nostra società, tra i protagonisti della società industriale e coloro che hanno da portare sulle loro spalle i prodotti negativi, che rimangono come conseguenza indesiderata del nostro processo industriale e tecnico. La conferenza di Kyoto ha offerto ai Paesi del benessere un altro modo economico per liberarsi della propria responsabilità: sui rifiuti si può pagare, in modo da non prendere su di sé la responsabilità delle emissioni delle nostre macchine e del nostro riscaldamento. In questo senso c'è anche nelle nostra società altamente sviluppate una divisione sgradevole tra quelli che sono i protagonisti, i pensatori, che si approfittano di una società e il gruppo di quelli che portano il carico degli effetti indesiderati e infine l'ultimo gruppo, quello dei criminali, che non pensano molto e che cercano una via comoda per liberarsi di questo.
La riconciliazione Questo era il primo punto che ho voluto spiegare, che la nostra società quando si vede soltanto l'aspetto limitato dei rifiuti, fa una divisione che può essere criticata. Ma allora, cosa si dovrebb e fare? La rimozione dei rifiuti richiede riconciliazione con la gente. Occorre, e mi sembra che questo valga per tutti, tendere le mani riconciliatrici primo a coloro che portano i pesi sgradevoli della produzione e del progresso tecnico. Bisogna far pace con i deboli, gli emigranti, che diventano facilmente le vittime del traffico transnazionale dei rifiuti, soprattutto con l'esercito di quelli che sono più direttamente esposti ai pericoli della salute e dello sviluppo. Anche nei riguardi dei criminali e degli agenti politici, anche degli amministratori internazionali dobbiamo mostrare misericordia. Si può identificare il prodotto di scarto, solo quando ci si mette in una posizione di riconciliazione con quelli che si è deciso di scegliere come capri espiatori. Soltanto quando ci si è decisi a riconciliarsi con loro, ci si colloca in una posizione morale autentica verso l'ambiente e si può trovare una soluzione ai problemi. Soltanto quando si affrontano continuamente, non soltanto gli effetti positivi, ma anche gli effetti negativi del sistema si può ultimamente svilupparlo in un senso diretto e benefico. Nella nostra società si convincono già in molti uomini e donne a trasformarsi in scaricatori professionali. Adesso, una volta visto che non dobbiamo vivere a spese di un gruppo, anche di un gruppo della terra, possiamo ultimamente affrontare anche il tema dei rifiuti. In questo senso si sono fatti anche passi avanti: per mezzo di contenitori specifici e sacchi multicolori si riesce ormai a convincere la casalinga e suo marito, non dimenticando i figli, a farsi esperti nella disposizione dei rifiuti davanti alle loro case. Almeno in questo campo domestico, dopo aver visto che non si può fare i conti contro un certo gruppo si comincia a farlo noi stessi e, quando si comincia a differenziare, comincia davvero una catarsi morale. Mi sembra uno degli aspetti più belli nei nostri Paesi di vedere che adesso ognuno o molti hanno deciso di prendere responsabilità.
La giustizia e la crisi ecologica Il terzo punto è la giustizia: dicendo che i pesi sono inadeguatamente distribuiti nella nostra società ed aggiungendo che è necessario creare un senso di riconciliazione, si ha anche una possibilità di criticare il sistema, si individuano i criteri per affrontare il sistema globale, si può persino trovare un orientamento etico e morale, per andare avanti. Riconoscere e rispettare l'altro appartiene alle grandi conquiste etiche; per questo la giustizia rimane una condizione necessaria anche per risolvere un problema così urgente come quello dei rifiuti, che si pone oggi come concetto centrale per un'etica capace di affrontare la crisi ecologica. Infatti iustitia est ad alterum è la nota distintiva della giustizia, quella di considerare l'altro come altro in sé, persona da considerare sempre come fine in sé. E uno dei punti che dobbiamo sempre di nuovo imparare. Mi ricordo che tanti anni fa sono stato in India ed era un tempo molto brutto per questo Paese e la gente moriva veramente nelle strade di Calcutta, mai ho visto nella mia vita una povertà tale. Esterrefatto da quello che vedevo, ad un certo punto non potevo più pensare a cosa dovevo veramente fare; dovevo entrare alla scuola di questi uomini e donne .Ho capito in un momento che era vero: loro avevano ancora la possibilità di fare una differenziazione tra quello che era necessario e quello che era lussuoso. Necessario per loro era avere un pezzo di pane per sopravvivere, era necessario avere un pugno di riso per sostenere la propria vita. In un altro senso loro sapevano ancora che era il loro vicino quello che aveva il coraggio e la possibilità di dargli un po' di mangiare e loro stessi avevano anche la possibilità di vedere la profondità della libertà umana. Dunque, in questo senso, tutti noi abbiamo già, in un modo o in un altro, cominciato ad imparare dai poveri. Tutti noi abbiamo visto come quell'altro, che è venuto in mezzo a noi ci ha aiutato a vedere con chiarezza in che cosa è sbagliato o buono quel sistema nel quale viviamo. In questo senso la scoperta della giustizia diventa e rimane un dovere continuo di tutti noi, anche nella crisi ecologica. Dopo aver ribadito che, quando si considera la crisi ecologica, non si può fare a meno del concetto della giustizia, andiamo a un secondo punto che ci rimane da riflettere un po' perché questo era previsto anche per la mia presentazione, cioè il contributo del Magistero.
Il Magistero Ho tentato di raccontare una favola dell'altro, della povertà e della giustizia nella mia esperienza in India, ma le più belle sono state realizzate in questa terra santa, affascinante e cara dove siamo adesso del serafico Francesco. Una piccola storia non tanto lunga: un giorno San Francesco cavalcava sulla terra adornata da una stupenda fioritura, all'improvviso con il vento gli giungeva l'odore della morte, si guardò intorno, non lontano da lui si trovava la casa dei lebbrosi di San Salvatore, tra Maria degli Angeli e Assisi. Istigò il cavallo, si chiuse il naso, nella sua fantasia gli ammalati nauseabondi erano da considerare come salma della società. Parecchie volte aveva mandato aiuto a questi sfortunati inviando loro delle elemosine ma mai ebbe il coraggio di avvicinarsi a loro. Aveva addirittura un certo terrore nei loro confronti. Ma questa volta gli parlava una voce interna "vedi che c'è ancora una povertà più grande di quella che hai visto a Roma? Devi andare vicino a loro", ma la terra rideva sul sole e la gioia di vivere cantava nel cuore del giovanotto. All'improvviso il suo cavallo si arrestò: ai bordi della via un uomo, non un uomo, un lebbroso, quando Francesco vide la faccia deformata e rugosa di dolori nel primo momento volle dare al cavallo le spore ma una voce interna diceva "cavaliere, di questo hai paura?". Di colpo saltò a terra, afferrò la mano del lebbroso, baciò le mani sfigurate, le parti del corpo putrefatte e gli lasciò un quattrino che in paragone all'amore del bacio fu niente. Poi montò di nuovo sul suo cavallo e sfuggì al galoppo, pieno di nausea e di gioia interna, ma il giorno dopo con distinta decisione andò nella casa dei lebbrosi, lavò e pulì le ferite degli ammalati, li servì pieno di umiltà e dava a ciascuno di loro un quattrino e un bacio. Mi sembra, un po' interpretando quello che è rimasto un po' nella nostra considerazione, che il quattrino simboleggi la giustizia; il bacio simboleggi invece qualcos'altro, che finora non abbiamo considerato sufficientemente: l'amore per la vita. In un modo diverso, si può anche dire che il danaro simboleggia tutto quello che l'uomo fa e deve fare quando segue la legge morale, quando pratica la giustizia. Il bacio invece è il simbolo forte dell'affermazione di tutto ciò che sta sotto ogni atto individuale, il fondamento di ogni agire morale: l'amore. Questo si può vedere nell'abbraccio del bene, il canto della terra in senso religioso in lode del creato. Con il Cantico delle Creature si è aperta una nuova dimensione anche nel cambiamento sociale della Chiesa e un nuovo orizzonte per il Magistero. Dunque il bacio, per dirlo concretamente, ci manca ancora un po' nel Magistero: della giustizia e dei quattrini si è parlato, anche se non sufficientemente, ma di quel bacio no.
Tre punti Vorrei illustrarlo in tre punti: primo, protezione di vita e giustizia intergenerazionale. Negli anni Sessanta - quindi già più di trent'anni fa - soprattutto nei Paesi occidentali un grande numero di contemporanei cominciava a capire che le grandi esperienze della libertà portavano sempre con sé un prezzo da pagare. Eravamo ancora in questo esuberante entusiasmo dei tempi moderni della libertà e della ragione morale. Ma è interessante che già in questo tempo molti - le casalinghe che facevano la loro normale attività, chi guidava una macchina, i proprietari di fabbriche - tutti vedevano che a lungo non si poteva andare avanti così. Non era possibile una libertà con un continuo progresso; era necessari o anche rispettare sempre la vita. Si capiva che a lungo andare non avremmo potuto mai più mantenere neanche la libertà, se non fossimo stati capaci di rispettare prima e sempre anche la vita. Questa naturalmente è una idea che emergeva prima dagli uomini semplici, ma che ben presto diventava materia di riflessione anche per gli economisti ed i tecnici. Passa del tempo prima che l'alfabetizzazione in questo campo cominci, ed anche nell'economia sarà necessario smettere di vedere in questi tipici motori della modernità il progresso, l'avanzamento e quel modo di sviluppare una vita del mondo che va sempre in avanti. Comincia così qualcosa che si chiama economia verde, una tecnica alternativa anche dei gruppi sociali alternativi che prendono sul serio il fatto che la libertà ha bisogno di correzione, di rispetto per la vita. Si comincia così a sviluppare anche un po' un concetto di giustizia che vede la relazione tra le diverse generazioni. Secondo, la conservazione della vita. Ho parlato degli anni Sessanta-Settanta, ma il movimento ecologico non cominciava negli anni Sessanta. Il suo primo periodo risale all'inizio del '900: dopo l'esagerazione antropocentrica dell'Illuminismo di quel tempo si cominciava di nuovo a riscoprire che per l'agire umano era necessario considerare la natura in un modo molto generale. Cominciavamo a riscoprire che era tanto importante la natura, come il rispetto, come l'affetto, come la coscienza dell'identità. Sembra evidente che, quando noi camminiamo nella natura, essa influisce sulla nostra gioia e qualche volta sulla nostra tristezza, ma sembra che le generazioni avessero perduto quella dimensione della natura. Lo potrei provare in diversi campi; mi è accaduto anche insegnando negli Stati Uniti, guidando i miei discepoli in questa riscoperta del grande Paese. Essi erano costretti man mano a riconoscere che la natura come tale meritava di essere conservata, altrimenti anche le nuove generazioni non avrebbe avuto la possibilità di sopr avvivere. Conservation per loro diventava davvero un tema principale della loro cura. Mi sembra davvero, come nel primo punto, che un problema per il magistero e la Chiesa fosse che all'inizio non facevano parte di questo movimento significativo degli anni Sessanta, ma lo vedevano invece come un problema che doveva essere rifiutato. In questo senso mi sembra che la Chiesa debba riprendere ancora quella discussione degli anni Sessanta, dove si cominciava a scoprire il rapporto tra libertà e vita. Qui in questo secondo punto mi è venuto in mente che anche la Chiesa ha lasciato quell'aspetto emozionale, quell'aspetto di contatto immediato con la natura, quell'aspetto di coinvolgimento con la natura come aspetto necessario per trasformare il nostro agire umano. Solo ai nostri tempi la teologia morale e l'etica cominciano a scoprire di nuovo le emozioni e i sentimenti, la vita emozionale dell'uomo, come condizione essenziale per formare giudizi morali e formare un mondo etico. Credo che quella scoperta della crisi ecologica da parte di un gruppo di giovani - certamente qualche volta con esagerazioni e grandi problemi - sia stata lasciata un po' fuori dalla Chiesa, cui è stato necessario parecchio tempo per inserirsi nella discussione. In Germania i protestanti sono stati sempre molto più avanzati di noi cattolici, che abbiamo zoppicato un po' dietro a loro. Il messaggio di Lutero, che è esistito sempre nella coscienza, aveva sviluppato molto più di noi quel senso di libertà che era necessario anche per sostenere la propria vita e trovare l'orientamento della propria cultura. A noi, invece è stato necessario più tempo per scoprire questa libertà, anche a causa del fatto che non abbiamo neanche scoperto sufficientemente il pericolo per la vita, sempre combinato con quello della libertà. Così in questo secondo punto volevo spiegare un po' di più come anche la Chiesa non ha fatto veramente quello che doveva fare, cioè riflettere sulla natura e sul creato. In tutta la mia vita, da quando ho insegnato in diversi posti del mondo, ho detto, assieme molti colleghi: "dobbiamo sviluppare la disciplina del creato di nuovo perché è stato trascurato, non si è fatto molto, dobbiamo ritornare a una riflessione sul creato", ma non si è fatto in tempo, perché si deve fare ancora. Il terzo punto è molto limitato; negli anni Venti del nostro secolo di nuovo negli Stati Uniti e dappertutto si procedeva ad un secondo passo di etica ecologica: nel sud-ovest dell'America i contadini che vivevano del lavoro della terra e del bosco osservavano un progressivo mutamento dei cicli stagionali e del clima. Lentamente si formarono esperti che studiavano questi cambiamenti e il loro effetto sulle colture agricole. Tra loro ci fu uno che merita veramente attenzione, chiamato Aldo Leopold, impegnato nella scienza forestale ed agraria; egli era uno dei primi a sostenere che il mutamento climatico non poteva essere considerato un fatto naturale, accettato fatalmente, ma si spiegava piuttosto come la conseguenza inevitabile di un uso inadeguato della terra e del suolo. Senza pensarci, la generazione precedente - insisteva Leopold - era andata troppo avanti nel disboscamento e nello sfruttamento dei pascoli. Era adesso necessario sviluppare qualcosa che lui chiamerà una Land ethics, un'etica della terra e una comunità più etica. E l'inizio di un tempo in cui si vede che non è la natura come tale che si deve recuperare, non la visione di una natura che ci aiuta a sviluppare un agire molto più adeguato. Si scoprivano cicli naturali, che potevano essere sviluppati - oppure alterati - dall'agire umano. Anche l'uomo era in una combinazione, in una relazione con la natura e si vedeva come si poteva e si doveva proteggere la natura, istruendo e proteggendo allo stesso tempo anche l'uomo. Rispettare l'uomo è rispettare la natura: la protezione della natura e la protezione dell'uomo vanno insieme, hanno la stessa validità e si deve vedere come nei cicli della biosfera si scopra non soltanto una natura come tale, ma anche nello stesso tempo l'uomo. Mi sembra anche qui che ci sia qualcosa che noi abbiamo difficoltà a vedere e sviluppare nel magistero e nei nostri corsi di teologia, cioè il fatto che noi non siamo i soli soggetti davanti alla natura, ma siamo davanti ad essa sempre nella nostra umanità. Oggi parliamo della globalizzazione; nella natura dei cicli stiamo con tutti quegli esseri viventi e formiamo una solidarietà tra i viventi. Noi abbiamo grande difficoltà, per esempio, a riconoscere i diritti degli animali; non è necessario avanzare il disaccordo fino a questo punto, ma è necessario avere un concetto biologico anche della giurisprudenza, della filosofia ed anche della teologia. E un po' deplorevole che nelle nostre facoltà spariscano le cattedre della cosmologia e una preoccupazione, una cura per le scienze naturali, che sia ancora capace di articolarsi con la grande dottrina della fisica e della chimica. Ho voluto in questo secondo punto dire che se è vero che la giustizia è ancora il concetto centrale anche per noi, che riflettiamo sulla etica ecologica, vale comunque la pena di considerare il fatto che noi dobbiamo fare ancora un grande sforzo di sviluppare la dottrina sociale della chiesa in termini di ambiente e dell'uno e dell'altro punto che ho citato. Concludo con una citazione, da buon teologo, del Papa. Afferma giustamente il S. Padre in un discorso che ha fatto al Corpo Diplomatico nel gennaio: "Se l'uomo stravolge gli equilibri della creazione, dimentica di essere il responsabile dei suoi fratelli e non si prende cura dell'ambiente che il Creatore ha affidato alle sue mani, questo mondo programmato secondo i nostri progetti potrebbe diventare irrespirabile". Dunque lui dice la drammaticità di quella riflessione che facciamo, più dell'azione che sta davanti a noi. Credo, comunque, di aver voluto mostrare un po' come tutto quello che noi sintetizziamo i