UFFICIO NAZIONALE PER I PROBLEMI SOCIALI E IL LAVORO
DELLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA

Maestro buono che devo fare per ereditare la vita eterna?


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21 Ottobre 1999

1. L'itinerario metafisico-antropologico

Il tema delle relazioni lo possiamo affrontare seguendo tre possibili itinerari o percorsi: il primo è un itinerario che potremo chiamare metafisico-antropologico; non vi spaventate per queste parolone, sono realtà molto belle ma, non avendo avuto molto tempo per preparare la relazione, mi limito solo ad indicare due studi per poi voltare subito pagina. Sul mio tavolo ci stanno due libri da leggere, utili per la nostra riflessione: uno di Roberto Mancini Esistenza e gratuità. Antropologia della condivisione ed. Cittadella, dove propone delle riflessioni molto interessanti, sul tema delle relazioni. L'altro libro, ormai è un classico, di Michelle De Sartou, un gesuita morto una decina di anni fa, uno storico mistico, antropologo, dal titolo significativo: Mai senza l'altro, Ed. Quicaion.
2. L'itinerario simbolico-narrativo
Il secondo percorso possiamo definirlo simbolico-narrativo e lo vedremo attraverso il libro dell'Esodo. L'esodo è un testo fondamentale, un po' come il Vangelo dell'Antico Testamento, perché è il nucleo sorgivo della storia di Israele e insieme lo specchio della sua coscienza. E' un percorso narrativo perché una storia si può sono narrare; e qui abbiamo la storia di una relazione prima negata, poi fondata e poi ancora promossa. Ed è un percorso simbolico perché evidenzia l'orizzonte di senso che il linguaggio di questa storia disegna.
a) la relazione negata Accostiamo pertanto il libro dell'esodo per vedere in esso profilarsi l'orizzonte della relazione come nuova rivelazione del divino e nuova costituzione dell'umano secondo le tre tappe precedentemente evidenziate. Innanzi tutto la relazione negata. La storia di Israele nasce con la storia del non popolo; infatti prima di essere popolo era un insieme di stranieri e di schiavi in Egitto. E' interessante notare che nei primi due capitoli dell'Esodo Dio stia quasi sullo sfondo. L'autore molto finemente, sembra quasi che lo tenga da parte, quasi a farlo desiderare al lettore perché ne vuole far percepire, quel brivido che deve aver percorso Israele quanto ha preso coscienza della presenza di Dio. In questi versetti dell'Esodo vediamo che cosa è successo all'inizio della storia di Israele, come viene fotografata la situazione di questo popolo, meglio di questo non popolo: "Nel lungo corso di quegli anni, il Re d'Egitto morì. Gli Israeliti gemettero per la loro schiavitù, alzarono grida di lamento e il loro grido dalla schiavitù salì a Dio. Dio ascoltò il loro lamento, si ricordò della sua alleanza con Abramo e Giacobbe. Dio guardò la condizione degli Israeliti e se ne prese pensiero" ( Esodo 2,23-25). Si tratta dunque di stranieri, e lo straniero è l'immagine biblica della diversità, della alterità, di colui che fisicamente è presente in una terra, ma al quale non viene riconosciuta una identità; e per giunta sono schiavi, di quelli che Aristotele chiamava strumenti animati, cioè oggetti. L'unica differenza rispetto alle cose inanimate è appunto che sono animati. Sono pertanto senza identità, definiti dalla volontà altrui. E questi stranieri e questi schiavi, questi ebrei, gridano. Ma attenzione, non gridano a Dio; il loro grido non è una preghiera, non è una invocazione, perché Israele ancora non ha preso coscienza che c'è un Dio che possa ascoltare della gente disperata. Abbiamo ascoltato nel testo che gli Israeliti gemettero per le loro schiavitù, alzarono grida di lamento, ma non a Dio! Ma Dio ascoltò il loro grido. E' un Dio selettivo perché ascolta la voce degli Israeliti e non quella del Faraone e del suo esercito; il suo orecchio seleziona quanto sale a lui dall'umanità. Infatti non ascolta le voci e i canti degli egiziani ma ascolta le grida e il pianto di Israele. Interessante notare i quattro verbi che vengono usati: ascoltò, si ricordò, guardò e se ne prese pensiero. Dio ascoltò e si ricordò mentre gli ebrei si erano scordati che c'era un Dio che li poteva ascoltare. Questo vuoto di memoria era per loro un vuoto di identità. Dice un detto rabbinico: " L'esilio vero di Israele in terra d'Egitto fu che gli ebrei impararono a sopportarlo; questo fu il vero esilio". Interessante notare la fede come ricordo, la fedeltà di Dio come ricordarsi di quello che aveva promesso e la fede dell'uomo, del credente come un ricordarsi di quello che Dio ha promesso. Dice un versetto di Isaia "Voi, che rammentate le promesse al Signore, non prendetevi mai riposo e neppure a Lui dategli riposo"( 62,6-7 ), cioè non stancatevi di ricordare a Dio quello che lui ha promesso, anche se Dio si ricorda, è lui il primo che si ricorda. Altro verbo è guardò. Come il suo orecchio, anche il suo occhio, è selettivo. Il quarto verbo, se ne prese pensiero, letteralmente - li conobbe. Sappiamo che il conoscere biblico non è un conoscere neutro, la registrazione di una situazione, ma è sempre un entrare coinvolgendosi nella situazione. Dunque questo Dio è un Dio corposo, un Dio che entra il relazione, dall'orecchio teso, dalla memoria ridestata, dall'occhio vigile e dal cuore sollecito. Questa è la definizione narrativa del Dio biblico, è definizione, o meglio è autodefinizione, perché è Dio stesso a determinarsi liberamente, ma non per quello che è in sé, ma per come si fa, per come si pone nei confronti di Israele, per l'alleanza che stabilirà con Israele. Si tratta dunque della prima rappresentazione del personaggio, ma non dei suoi attributi immanenti, ma bensì dalla sua volontà di relazione: è un Dio che appare sulla scena come colui che raccoglie il grido di gente che non ha nessuno a cui indirizzarlo, come il Dio dei senza terra, dei senza identità, dei senza Dio. Il Dio di Israele è un Dio diverso, diverso non soltanto dalla divinità degli Egiziani, ma dallo statuto etnico locale del divino. Non è un Dio che come tutti gli altri dei, di tutti gli altri popoli, ad esempio degli egiziani, babilonesi e Assiri, appartiene ad una terra e ad un popolo. Il Dio d i Israele è il Dio universale, cioè sciolto da vincoli locali. Ed è anche un Dio trascendente, cioè sciolto da vincoli etnici. Israele infatti non può vantare un rapporto di parentela con questo Dio. Non c'è una mitologia ebraica che come tutte le altre mitologie narra di discendenze carnali, per via sessuale, di accoppiamenti con divinità che danno origine al popolo di Israele. Israele è creato dal Dio assoluto, che però si relativizza creando l'uomo; per dire così, è un Dio assoluto che si fa relativo, la sua trascendenza è premessa di condiscendenza, è trascendenza con-discendente. Dice Arnilo Rizzi: "Il suo unico modo di coltivare un interesse verso se stesso è attraverso l'umanità"; è un Dio sbilanciato, decentrato. Un Dio che - mi si perdoni l'espressione - sembra quasi che non riesca a stare da solo. Diceva Turoldo: "Neanche Dio può stare solo". Questo perché è un Dio, come poi ci dirà Gesù, che è relazione, comunione. Questo aspetto lo vedremo più avanti. Mi sono soffermato a presentare questa prima tappa che parla della relazione negata.
b) la relazione fondata
Seconda tappa del nostro percorso: la relazione fondata, che ci fa vedere come Dio si pone in relazione, in rapporto con il popolo d'Israele; quando, usando un altro linguaggio, il popolo si sposerà con questo Dio. Questa espressione indica l'alleanza di Dio con il popolo. "Io sono il tuo Dio" - dice Dio a Israele; e Israele dice: "noi siamo il tuo popolo" ( cfr. Ger 7,23). E' la forma nuziale che si usa in Israele quando un ragazzo sposa una ragazza; il ragazzo diceva tu sei mia, io sono tuo, la ragazza diceva io sono tua, tu sei mio. Ascoltiamo la presentazione, il biglietto da visita di questo Dio che ha deciso di intervenire. "Mosè disse a Dio: "Ecco, io arrivo dagli Israeliti e dico loro: Il Dio dei vostri padri mi ha mandato a voi. Ma mi diranno: come si chiama ? E io che cosa risponderò loro ?". Dio disse a Mosè: "Io sono colui che sono". Poi disse: "Dirai agli Israeliti: Io Sono mi ha mandato a voi". Dio aggiunse a Mosè: "Dirai agli israeliti: Il Signore, il Dio dei vostri padri, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe mi ha mandato a voi. Questo è il mio nome per sempre; questo è il titolo con cui sarò ricordato di generazione in generazione". Esodo 3,13-15 Ci troviamo al cuore pulsante, al centro sorgivo della fede di Israele, della rivelazione di Dio. Che cosa significa : "Io sono colui che sono, Io sono mi ha mandato a voi?". Di questa rivelazione di Dio si danno tre interpretazioni. La prima è un 'interpretazione metafisica, filosofica; Filone di Alessandria l'ha fatta sua e l'ha rilanciata, ellenizzandola un po'. Dicendo: Io sono colui che sono, Dio si presenta come l'essere, l'essere perfettissimo. Ma c'è una seconda interpretazione che intende questa autopresentazione di Dio come una risposta evasiva. Dicendo Dio a Mosè, che vuole fare il suo ambasciatore: 'Sono quello che sono', intende si manifestarsi, ma anche sottolineare che Dio, in fondo in fondo, è l'inesprimibile, l'inaccessibile, l'impronunciabile, l'incomprensibile. Per cui quando si rivela, noi dobbiamo chiudiamo gli occhi, non tanto perché ci troviamo di fronte ad un geroglifico indecifrabile, ma perché la luce che emana è talmente forte che ci abbaglia. Comprendiamo pertanto perché gli Ebrei avevano e hanno un senso profondissimo di questa indicibilità del nome di Dio, in ebraico Javhè. Nessuno poteva pronunciarlo, tranne il sommo sacerdote, una volta solo all'anno, nel giorno della riconciliazione, quando entrava nel santo dei santi, egli gridava questo nome, perché lì si riteneva che Dio abitasse e poi l'andava a gridare al popolo, come a dire, ecco Dio ha fatto di nuovo l'alleanza con noi. La terza interpretazione, che facciamo nostra, va in un'altra direzione. Dicendo 'Io sono colui che sono', Dio vuole attestare una presenza benevola e attiva. Dio è il presente; più che l'essere è l'esserci, cioè io ci sto per te, per voi. Più che una esistenza dice una presenza. Questa è l'interpretazione oggi più corrente, ma anche più coerente perché Dio è proprio così. Un Dio che quasi non si appartiene ma vuole essere tutto per l'altro, un Dio per il popolo, un Dio che quando dice 'Io ci sto', non c'è da aver paura!. "...Non temere Abramo", "..non temere Mosè", "non temere Davide", "non temere Isaia", "non temere Maria, non temere Giuseppe", non temete dice il Signore ai suoi discepoli: " Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo". (Mt 28, 20) Ernest Block tradusse questo: "Io sono colui che sono", con sarò colui che sarò. Ma questa traduzione al futuro dei verbi non è fedele né al testo né a tutta la rivelazione di Dio nell'Antico Testamento, perché si finisce per dire che Dio non c'è ma ci sarà; e se ci sarà e non c'è, significa che al momento presente non si può entrare in relazione con uno che ci sarà e ora non c'è!. Ma come ha fatto Mosè a dire eccomi, come fa Maria a dire, eccomi?. Eccomi si dice ad una presenza, a qualcuno che si pone in relazione, che è presente. Quindi la relazione da parte di Dio, pur nascendo da decisione unilaterale, è Dio infatti che prende iniziativa, domanda reciprocità, chiede una risposta Spesso Israele ritornerà con un memoria nel cuore, a questo momento, chiedendosi ma perché il Signore ha scelto proprio noi?; eppure non siamo il popolo più potente, più forte, anzi siamo il più povero di tutti. Ma perché? Appunto perché questo Dio ti ha scelto, perché ti ha amato.
c) la relazione promossa
Terza tappa del nostro percorso: la relazione promossa. Dalla relazione negata, alla relazione fondata, e finalmente alla relazione promossa. Dio ha ascoltato il grido, conosce, cioè ama questo popolo e scende a liberarlo facendolo passare attraverso il mare Rosso, facendolo passare dalla schiavitù al servizio. Dalla schiavitù al servizio, cioè liberati da, per servire!. Perché servire questo Dio significa regnare, anche se al di là del Mar Rosso non c'è subito la terra promessa ma il deserto. E il deserto è la terra in forma di promessa. Fino al passaggio del Mar Rosso, Israele è soltanto oggetto dell'amore di Dio; ma ora che ha visto, ha visto il Dio liberatore che mantiene la promessa, che si pone in relazione, Israele crede. Anche se non arriva subito alla terra promessa ma incontro il deserto, Israele crede, entra in relazione, non con Dio trionfante e straordinario, ma con un Dio premuroso, quotidiano, ordinario. E così abbiamo la relazione fra Dio Israele in termini di fedeltà da parte di Dio, e di fede da parte di Israele. Anche in italiano le due parole hanno la stessa radice. Fedeltà, come nascosta sollecitudine di Dio, vedi la manna, come lunga paziente presenza. Non un intervento puntuale, miracoloso, straordinario come era stato l'evento del mare, ma come questo esserci nel quotidiano. Dall'altra parte la fede, non come un credere spontaneo e travolgente, ma come un abbandono umile, e fiducioso. Ancora una volta è sempre la relazione di Dio che ha il primato, perché è questa relazione che fonda e rende possibile la reazione dell'uomo. La più bella definizione di fede che secondo me si trova nei documenti della chiesa in questa seconda metà di secolo che ormai sta per finire, si trova nel Vaticano II, nel documento Dei Verbum n. 5, quando si dice che la fede è l'atteggiamento con cui l'uomo si consegna a Dio totalmente e liberamente. Pensiamo al rito del matrimonio quando prendendosi per mano i due si donano totalmente, o al gesto del diacono che nel momento dell'ordinazione mette le sue mani nelle mani del Vescovo. Sono due gesti in cui si dice la totalità della consegna, dove liberamente ci si consegna all'atro. Fede significa anche diventare adulti; accettando di continuare a crescere come figli, è possibile l'alleanza. Ascoltiamo questo brano tratto dal libro del Deuteronomio: " Non lederai il diritto dello straniero o dell'orfano, e non prenderai in pegno la veste della vedova, ma ti ricorderai che sei stato schiavo in Egitto e che di là ti ha liberato il Signore tuo Dio; perciò ti comando di fare questa cosa" (24,17-18). Cosa domanda Dio ? Dio domanda a Israele di ricordarsi che è stato schiavo e straniero. E questo ricordo non significa accendere un cero al tempio, significa che ogni volta che tu incontri uno straniero, uno schiavo sulla tua terra, tu devi fare come ho fatto io per te. Cioè tu ti devi porti in relazione con l'altro, con gli altri, come io mi sono posto con te. Come gli ebrei stranieri e schiavi erano il simbolo vivente dell'umano negato, della relazione negata, e come nel chinarsi sulla sorte degli ebrei in Egitto Dio ha definito se stesso libertà d'amore, così nella relazione con ogni negatività si apre a tutti la possibilità e l'esigenza di imitare Dio, di essere a immagine e somiglianza di Dio. Solamente delle persone liberate possono essere delle persone liberatrici!. Ma se non sono a loro volta liberatrici, cioè se non liberano, automaticamente ricadono nella schiavitù.
3. Il percorso teologico-dogmatico
Che cosa ci dice questo terzo percorso riguardo alle relazioni, alle relazioni di giustizia?. Passiamo da Mosè a Gesù di Nazareth. Con Gesù noi abbiamo la continuazione, meglio il compimento della rivelazione vetero-testamentaria, ma abbiamo anche una rottura: è una continuità nel segno della novità. Gesù è venuto a dare un volo a questo Dio. Il Dio di Mosè era il Dio infinito, eterno, immenso; ma anche il Dio vicino, l'Emmanuele. E qui posiamo scorgere la continuità. Ma in Gesù di Nazareth la parola dell'amore di Dio, si rende carne e sangue, si particolarizza al punto da essere un uomo, e in questo uomo noi vediamo il volto di Dio. Qui sta la novità!. Dunque Dio si da un nome e un cognome, per così dire, in Gesù di Nazareth. "Chi ha visto me ha visto il Padre" (Gv 14,9). Quel Dio che era l'impronunciabile, adesso, in Gesù porta all'estremo la sua condiscendenza rivelandosi, facendo cad ere l'ultimo velo. Quando Gesù muore, quell'ultima barriera che separava dal Santo dei Santi, il velo del tempio, si squarciò in due dall'alto verso il basso e nel suo grido di abbandono sulla croce, si rive la paternità di Dio, chi è l'Abbà ( cfr. Mc 15,33-39). Il nome Padre, Abbà, che Gesù da a Dio, non è uno dei tanti attributi, nemmeno il primo, ma è il nome proprio. Dio si dà un nome e il suo nome è Padre. Il modo proprio di essere Dio è quello di essere Padre; e il modo proprio di essere Padre di Dio è quello di essere Madre. Dunque Dio è Padre perché ama a fondo perduto, ama totalmente. Ecco la rivelazione di Gesù: Dio è amore, questo Padre è Padre da sempre, non c'è un momento in cui non è Padre. Il Padre incomincia ad essere Padre quando genera e Dio ha generato il Figlio dall'eternità. E' dunque il totale dare, il totale darsi; è la totale gratuità. E Gesù chi è se non il totale ricevere, la totale gratuità?. Ecco la relazione trinitaria! Tutto il dialogo tra il Padre e il Figlio si riduce a parole d'amore! Dunque noi abbiamo il Padre, l'amante, cioè colui che è amore; il Figlio, l'amato, che è gratuità; e la gratitudine, l'amore, lo Spirito che è grazia. Queste tre persone, ci dice la fede sono tre persone uguali, perfettamente uguali e unite, ma sono anche totalmente distinte nel senso che il Padre non è il Figlio, il Figlio non è lo Spirito. Ricordo il vescovo Tonino Bello quando stava preparando la lettera Pastorale ai suoi fedeli in occasione della Quaresima, per parlare della Trinità. Capitò un suo amico missionario che era lì di passaggio a Molfetta e gli disse: "Guarda, questa notte ho fatto una nottata per scrivere la lettera pastorale - e lo disse con tono per dire - guarda che cosa di bello è uscito fuori da questa notte di preghiera, di studio. Questo missionario incominciò a leggere ma rimase un po' schifato, non entusiasta, e alla fine restituì i fogli a Don Tonino. E Don Tonino gli disse: "M com'è non ti va giù questa storia?". Rispose il missionario: "Non parlerei mai così della Trinità ai miei negretti; quelli non si farebbero mai cristiani ! Parlando della Trinità faccio l'esempio di un gruppo di amici o di una famiglia, dove ci si vuole veramente bene e le persone non sono come sacchi di patate, uno più uno, più uno, alla fine si sommano e fanno tre. Ogni persona è, non aggiunta all'altra ma per l'altra. Per cui la preposizione o il segno matematico non è più, uno più uno, ma è uno per uno, e fa sempre uno! Il massimo della relazione è insieme il massimo della comunione". E' possibile dunque, se noi siamo ad immagine e somiglianza di Dio, vivere delle relazioni che sono delle relazioni fondanti tutte le altre, perché Dio è Padre e noi siamo figli; e se questo Dio di Gesù ci fa fratelli, noi possiamo essere fratelli, e se lo Spirito è l'amico, è il consolatore, è il Dio forte che ci accompagna nel cammino, allora anche noi possiamo essere amici. Anche la sponsalità è racchiusa nell'amicizia. Se gli sposi non sono amici che cosa sono?, due corpi che si incontrano o si scontrano. Figli, fratelli, amici, questi sono le relazioni fondanti, e allora è possibile vivere la vita come Gesù. Gesù vive, come dice il Catechismo degli adolescenti, a braccia spalancate!. E' il segno dell'apertura, totalmente aperto al Padre e ai fratelli e perfino ai suoi nemici. Quando uno ti sta per aggredire la prima mossa che fai è quella di chiudere le braccia, non perché il illudi di difenderti ma perché è istintivo. Gesù non ha fatto così ma si è lasciato inchiodare sulla croce. E' un corpo dato, un sangue offerto, versato, per voi e per i molti. E' un esistenza per, totalmente offerta. Gesù è davvero persona, un'esistenza totalmente data che lo fa essere totalmente libero. Questo spiega la libertà di Gesù di fronte alle cose: " Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell'uomo non ha dove posare il capo" ( Mt 9,58); è talmente libero di fronte alla gente , quando la gente viene per farlo re, lui si sottrae all'abbraccio entusiasta della folla che lo vuole catturare per farlo suo ( cfr. Gv 6, 15); libero di fronte ai parenti " Mia madre e i miei fratelli sono coloro che ascoltano la Parola di Dio e la mettono in pratica" ( Lc 8,21). Libero di fronte ai discepoli, che chiama ma non incatena, li cura ma non li vizia, pronto anche a rimanere da solo. Libero di fronte alla morte " Padre, nelle tue mani consegno il mio Spirito" ( Lc 23,46). di Gesù.
4. Conclusione
Per chi conosce il '68, sa che un aspetto della contestazione è stato proprio contro la figura del padre. Proprio in quegli anni, ho letto per la prima volta la "Lettera al Padre" di Kafka, dove Kafka si pone nei confronti di questo padre, che non è suo padre, ma è la figura del padre, quindi dell'autorità. In uno dei passaggi più significativi scrive: "...io potevo fruire di ciò che tu davi, ma solo nella vergogna, nella stanchezza, nell'impotenza, nel sentimento di colpa, davanti a te avevo perso la fiducia in me stesso, scambiandola con uno sconfinato senso di colpa". La conclusione dunque è semplice: dobbiamo fare a meno dei padri, se i padri fanno venire i sensi di colpa, la vergogna e tutto quanto. In quegli anni si chiamavano i matusa, gente da cimitero. Se non che da una società contro ai padri, siamo passati ad una società senza padre. Eugenio Scalfari, il 27 dicembre scorso, ha scritto un editoriale su Repubblica intitolato: "Il Padre che manca alla nostra società". Lui che è stato uno dei profeti delle lotte contro i padri, interessante ancora di più, dice che una società senza padri di fatto si riduce ad essere branco, non popolo; e porta l'esempio degli Ultrà delle curve degli stadi. Senza il Padre il mondo diventa insicuro per i figli orfani, e non preparati a surrogarlo; e questa diviene infatti la società di fine millennio malgrado le sue mirabili acquisizioni tecnologiche, luogo insicuro, labile, inutilmente motorio, dove ci agitiamo tanto, andiamo da una parte all'altra senza sapere perché, cosa farai domani. Un luogo privo di credenze ma ingombro di superstizioni, e già perché facendo fuori il Padre, va a finire che poi noi atei diventiamo idolatri. Diceva Bonhoeffer che il contrario della fede non è l'ateismo ma il vitello d'oro, i tanti vitelli d'oro che ci facciamo. Concludo con la testimonianza di un altro che è stato un profeta di quegli anni passati, Tony Negri, che si trova ancora in carcere a Rebibbia. Sulla rivista intitolata "Riparazione Mariana", cura una rubrica dove ha scritto: " Non ho avuto padre, meglio avevo due anni quando mio padre è morto, mia madre è stata anche mio padre, il pane e il perdono sono state la raffigurazione del Padre assente". Il pane e il perdono sono stati alla base del pensiero e dell'immaginazione di un giovane che voleva costruire per se e per gli altri una vita più sana, democratica e gentile. Allora dire Padre sia santificato il tuo nome, è uguale a dire Padre dai a tutti il pane e la capacità di perdonare, di essere fratelli. Non c'è pane del corpo senza perdono dello Spirito, d'altra parte non c'è perdono senza pane. Chi è senza pane può odiare, chi vuole perdonare deve avere il pane. Il nome di Dio si libera da ogni concezione di sovranità che non preveda amore solo quando il pane è divenuto un elemento del nostro senso della divinità. Pane con Dio, pane e perdono, questa è in fondo la Pasqua, i doni che riceviamo a Pasqua sono questi, il perdono, il pane. Questa è l'Eucarestia che è la Pasqua quotidiana, Pasqua domenicale. Vivere allora una vita di relazione significa vivere una vita eucaristica e pasquale cioè essere uomini di pane e di perdono, uomini di relazione.