UFFICIO NAZIONALE PER I PROBLEMI SOCIALI E IL LAVORO
DELLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA

Luoghi e soggetti dell’educazione alla pace

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31 Maggio 2000

affinchè quelle della liturgia non si riducano ad essere mere espressioni retoriche: "In un mondo lacerato da divisioni e discordie la tua chiesa risplenda come segno profetico di unità e di pace" .
6. Itinerario di formazione permanente
Famiglia, scuola, associazionismo e chiese sono luoghi e soggetti che accompagnano la persona non in un momento particolare, ma per tutta la sua vita: è un richiamo al fatto che un progetto di educazione alla pace chiama in causa soggetti e luoghi atti ad un itinerario di formazione permanente, che non solo individui obiettivi e li raggiunga, ma li sappia continuamente aggiornare e vigili affinché non siano sminuiti o resi vani da interessi particolari. In questo senso dovrebbe far pensare che conquiste alte, e raggiunte con apporto e partecipazione corale, a livello internazionale come quelle raggiunte dopo la fine della seconda guerra mondiale siano oggi in pericolo senza che la stragrande maggioranza della popolazione, che ha oggi a disposizione mezzi straordinari di informazione e comunicazione, se ne renda conto. La convivenza pacifica è un obiettivo trasversale di ogni uomo di buona volontà e di ogni cristiano. Un obiettivo trasversale anche ad ogni tempo. Ma è un obiettivo che esige anche un'analisi attenta del tempo in cui viviamo per capirne le urgenze più gravi in ordine al perseguimento della pace, per capire quali soggetti siano particolarmente chiamati in causa in ragione della loro responsabilità e per capire infine quale strategia sia più idonea al momento attuale. E questo per non correre il rischio di "correre ed aver corso invano" (Gal 2,2). Ma lo studio e la verifica, evangelicamente fondate, non sono ancora una prassi usuale nella chiesa e nel pianeta dei 'costruttori di pace'.
1. Il contesto in cui viviamo
La guerra, dopo un lungo decennio sanguinoso nei Balcani, combattuta nel Kossovo, che lascia aperta una crisi gravissima nel cuore dell'Europa, dopo aver mancato il suo obiettivo di evitare una catastrofe umanitaria e di salvare il Kossovo, introduce un nuovo scenario in cui sono rimessi in gioco i rapporti tra i grandi poteri mondiali e lo stesso ordine giuridico internazionale che ha regolato la storia del mondo nella seconda metà di questo secolo.
1.1. Un nuovo scenario o la riesumazione di quello che speravamo sepolto? Il fatto che per giocare questa partita, dopo la caduta del muro di Berlino, sia stata richiamata in servizio la guerra, già bandita dal diritto internazionale, e ora ammodernata con nuove armi e gestita da nuovi soggetti interstatuali sottratti al controllo democratico e alle regole del diritto, apre una fase di estremo pericolo e di imprevedibili dolori per ogni singolo Paese e per l'intera comunità internazionale. Come è stato osservato in sede analitica, la guerra nel Kossovo ha voluto essere una "guerra costituente": operando infatti una rimozione e una rottura rivoluzionarla del vecchio ordinamento, si è proposta come fondativa del nuovo. Di fatto essa si è iniziata e dispiegata in violazione sia del diritto internazionale generale e delle competenze riservate in via esclusiva alle Nazioni Unite, sia del diritto interno degli Stati Uniti e delle leggi che regolano in materia di guerra i rapporti tra Presidente e Congresso, sia della Costituzione italiana che ripudia la guerra e attribuisce al Parlamento e al Presidente della Repubblica il potere di deliberare e dichiarare lo stato di guerra in cui il Paese venga suo malgrado a trovarsi. Si tratta di una illegittimità insanabile in radice, ma che proprio perciò tende a instaurare una nuova legittimità: la sostituzione della NATO all'ONU in tutta l'arca euro-asiatica, il diritto di intervento degli Stati Uniti per la difesa dei propri interessi vitali in ogni parte del mondo, il diritto di "ingerenza umanitaria", il diritto di guerra non solo degli Stati ma di nuovi pretesi soggetti sovrani, come la NATO, dimostratasi peraltro capace di iniziare una guerra ma non in grado di concluderla. Tale nuova legittimità non configura tuttavia una rivoluzione mirante a conquiste più avanzate, ma è una restaurazione e anzi una reazione a conquiste già realizzate. Essa comporta infatti il ripristino di tre pilastri del vecchio ordine, conclusosi nel Novecento con le tragedie dei totalitarismi, della seconda guerra mondiale e del genocidio nazista degli ebrei: la guerra, la dottrina della sovranità e l'ideologia della diseguaglianza. La guerra che, senza distinzione tra difensiva e offensiva, era stata per secoli legittimata come il potere del re e degli Stati sovrani di farsi giustizia da sé, viene oggi ripristinata come giurisdizione e punizione dei forti contro i deboli; la sovranità, che era stata costruita come esercizio di un potere non vincolato dalle leggi e indipendente, e anzi superiore ad ogni altro potere, viene oggi riproposta come rivendicazione di una sovranità universale in capo a un'unica grande Potenza abilitata a dirigere e a pacificare un mondo indocile e globalizzato, senza "i lacci e lacciuoli" delle procedure dell' ONU; l'ideologia della diseguaglianza, che fin dall'antichità classica aveva generato il dualismo di signori e servi, liberi e schiavi, nazioni civilizzate e barbari, razze superiori e inferiori, caste e fuori casta, sessi dominanti e dominati, viene oggi riproposta nelle forme di una ristrutturazione piramidale e gerarchica della società e di una disparità di diritti reinterpretati come variabili del mercato, nonché nelle forme di un direttorio politico-militare di 8 o di 19 Paesi tra i più ricchi e potenti del Nord del mondo, che si arrogano l'autorità universale e i poteri appartenenti all'intera comunità dei 185 Paesi membri delle Nazioni Unite.
2. La necessità di reagire
E' per l'esperienza dei tragici esiti di un ordine in tal modo fondato, che l'umanità, assumendosi un ruolo costituente, decise, dopo la notte del nazismo e della shoà, di mettere fuori legge la guerra, di ricondurre le sovranità alla regola del diritto e ai limiti dettati dall'interdipendenza e dalla appartenenza a un'unica comunità democratica delle nazioni, e di negare la diseguaglianza promuovendo un ordinamento basato sull'eguaglianza e la dignità di tutte le persone e delle "nazioni grandi e piccole": sono state tali determinazioni a scongiurare la guerra atomica e a permettere, almeno all'Europa, un sostanziale periodo di pace a disposizione dello sviluppo dell'uomo. Ignorare o rovesciare queste conquiste, già messe a dura prova per quattro decenni dalla sfida tra i blocchi, dalla guerra fredda e dalla minaccia nucleare, significherebbe ora non solo liquidare l'ONU e ridurla a una ONG caritativa, ma anche rovesciare questo ordinamento nel quale gli stessi diritti umani sussistono e sul quale tutte le nostre libertà e i nostri diritti politici, civili, economici, sociali e culturali hanno il loro fondamento e trovano la loro sanzione. Ciò è in particolare contro lo spirito dell'Europa e le lezioni della sua storia. Le vicende legate al conflitto nel Kossovo dimostrano che i Paesi europei, e prima di tutto l'Italia, pur enunciando valutazioni ed intenzioni diverse, ai massimi livelli di governo, sulle motivazioni e la condotta della guerra, si sono trovati prigionieri di un meccanismo che non permette loro alcuna autonomia di decisione, pur essendo in gioco vitali interessi nazionali. E questo drammatico scenario che va tenuto presente nell'individuazione dei luoghi e dei soggetti più adatti nell'educazione alla pace: nel senso che dimenticare o mettere in secondo piano il contesto in cui ci muoviamo potrebbe precluderci la strada ad ogni iniziativa, o segnarne il suo sicuro fallimento, che non sia di stampo intimistico.
3. Cosa fare?
Riguadagnare questa autonomia non può essere ora il frutto di una decisione istantanea, di un atto volontaristico e velleitario, ma richiede una determinazione e una preparazione di lunga lena nelle opinioni pubbliche, nelle forze politiche, nel Parlamenti, a cominciare da una riflessione critica e da un voto sui "nuovi orientamenti" adottati dal Consiglio atlantico, con la procedura del "silenzio-assenso", nel vertice dei 25 aprile 1999 a Washington. Tuttavia, al di là dei condizionamenti strutturali, c'è anche una percezione erronea degli interessi nazionali, soprattutto sul piano economico e competitivo, che porta a condividere ogni scelta, anche sbagliata, dell'Alleanza, per adempiere all'esigenza considerata prioritaria di appartenere al club dei privilegiati nel mondo diseguale, e di restare, comunque, nel campo dei vincitori. Ma ciò, al di là di ogni considerazione giuridica ed etica, può rivelarsi assai miope in un meno breve periodo; e in particolare, per l'Italia, contraddice il suo ruolo nel Sud Europa e nel Mediterraneo, come ponte e sponda per i popoli, le culture, le religioni del Sud del mondo, nei cui confronti è urgente approntare non un minaccioso e illusorio "modello di difesa" (presentato nei suoi lineamenti al Parlamento nel '91 e che continua a fare passi in avanti senza essere m ai discusso dalla Camere), ma un modello di intesa, di cooperazione e di pacifica, interdipendente sicurezza.
3.1. Affermare l'irrazionalità della guerra Così come la penultima, quest'ultima guerra europea, sia nella pretesa di realizzare degli Stati monoetnici, degenerata negli orrori della repressione serba e della pulizia etnica, sia nella pretesa di contrastarli con i bombardamenti, divenuti essi stessi causa della distruzione di tutto ciò che si voleva tutelare, ha mostrato l'irrazionalità della guerra e delle politiche di guerra, di diseguaglianza e di dominio, e impone che si riapra e intraprenda una tutt'altra strada. Tanto più che la conclusione della guerra, quando la NATO, per uscirne, ha dovuto negoziare con la Russia, tener conto delle posizioni europee e rimettere le cose nelle mani dell'ONU, ha dimostrato che il disegno di onnipotenza non ha prevalso, e che la partita è tutt'altro che perduta.
3.2. La riaffermazione della democrazia La risposta non può essere dunque che quella di una grande ripresa della lotta per la democrazia e per il diritto. Ma come nel 1945 questa risposta fu universale, e poi nazionale, così anche oggi questa risposta non può che essere internazionale ed europea, perché è ormai su questo piano che si giocano le sorti della democrazia e del diritto, e solo se si salva e si costruisce la democrazia internazionale, se si rinnova e potenzia l'ONU, se si dota l'Europa di una Costituzione non solo garante dei suoi cittadini, ma aperta ai nuovi popoli e garante per tutti, si può salvare e rilanciare la democrazia in ogni Paese.
4. Una sfida cristiana
Educare alla pace ed educare alla democrazia sono quindi degli obiettivi contigui: non ci può essere l'uno senza l'altro. La pace in senso biblico è la pienezza dei doni di Dio, promessa di libertà e realizzazione di tutti gli uomini e di tutto l'uomo: un dono di Dio che però, come si legge nel nostro documento_, è anche consegnato alla responsabilità degli uomini, dove la responsabilità ha il volto di un dovere, ma anche di un diritto. Senza il diritto alla responsabilità nella costruzione della città comune, i doni di Dio vengono penalizzati nella persona, che vede mortificata la sua possibilità di esprimersi in pieno, e nella comunità umana, che viene privata dell'apporto creativo di qualcuno. E questa responsabilità che è particolarmente chiamata in causa nell'epoca presente, dove non si può più disinteressarsi dei problemi internazionali se si vuole realizzare anche la convivenza pacifica intorno a noi. Un progetto di educazione alla pace, cristianamente orientato, dovrà necessariamente tenere presenti i termini del problema che sono stati presentati e quindi: non si interesserà solo alla dimensione interpersonale (educare a rapporti di pace in famiglia, nella scuola o in parrocchia…), ma la utilizzerà come propedeutica all'impostazione di giusti rapporti tra i popoli: e d'altra parte è forse possibile vivere rapporti corretti tra le persone in un paese dove non siano garantiti i diritti fondamentali delle persone (diritto alla sopravvivenza, alla libertà, al lavoro, all'istruzione….)? non mirerà solo alla pace del cuore, ma la considererà come 'conditio sine qua non' della pace del mondo; guarderà alla pace nel mondo come un dono che viene dall'alto, ma che nello stesso tempo esige il contributo e l'apporto di tutti, non solo dei governanti: in questo senso non si dà educazione alla pace senza educazione alla democrazia.
5. Luoghi e soggetti dell'educazione alla pace
Con queste attenzioni, i luoghi ed i soggetti dell'educazione alla pace che il nostro documento enumera possono diventare strumenti efficaci in ordine alla costruzione della città dell'uomo (ogni uomo e tutto l'uomo) che realmente contribuisce all'instaurazione e all'avvento del regno di Dio.
5.1 La famiglia E il luogo primario dell'educazione e quindi dell'educazione alla pace: "in essa l'educazione alla pace inizia con l'esperienza del "pre ndersi cura" della diversità di ciascuno rispetto all'altro" che permette di "sperimentare l'"essere fratelli" nel suo contesto primario e naturale". "L'educazione alla pace in famiglia si sviluppa poi nel modo di vivere le relazioni e i conflitti generazionali, tra genitori e figli"; in tutto questo un ruolo tutto particolare viene giocato dal "genio" femminile, che la società è restia ad accogliere nel suo apporto originale, che tanto potrebbe dare alla convivenza pacifica: non è un caso se la nostra società, che lascia spazio alla violenza, non solo armata, e anche la nostra chiesa sono sostanzialmente declinate al genere maschile. Imparare a gestire i conflitti, prendersi cura degli altri, esperimentare l'essere fratelli ed il rispetto reciproco… non possono però diventare meri obiettivi egoistici, finalizzati unicamente al vivere serenamente in famiglia: giustamente il nostro documento ricorda che la famiglia "educa alla pace quando rifiuta ogni chiusura egoistica", quando cioè si apre ai bisogni ed alle esigenze della città e del mondo, ivi compresa la necessità di un ritorno al pensare mondiale in chiave democratica.
5.2 La scuola Accanto alla famiglia, la scuola è un logo privilegiato dove "imparare la pace…vivendo processi effettivi di partecipazione". E qui che si può imparare la pace "prendendosi cura di chi è più debole ed evitando che l'apprendimento diventi puro spazio di competizione per il successo personale e quindi radice di conflitti, invece che strumento di relazione e di aiuto reciproco". Inutile ricordare che un ruolo importantissimo rivestono in tutto questo processo gli insegnati, attraverso l'esperienza educante, che preveda anche contenuti specifici. In modo particolare le maestre e i maestri delle scuole elementari devono sentirsi investiti del compito di educare alla pace e al diritto i bambini fin dalla più tenera età, nelle forme pedagogicamente più appropriate e in molte straordinarie esperienze italiane già con successo prati cate. Se la cultura e la coscienza della pace e del diritto non si radicano fin da bambini, e in bambini pienamente assunti come soggetti secondo una delle più felici acquisizioni dell'ordinamento internazionale postbellico, sarà difficile rintracciarle poi nei giovani, anche informatizzati, e nelle generazioni adulte, come si comincia a vedere. Ma a tale compito, decisivo per il nostro futuro, i maestri devono prepararsi facendo essi stessi "movimento" tra loro, costituendosi in una grande comunità educativa, in rapporto con la società e le famiglie, nella quale scambiarsi nozioni ed esperienze e in cui far crescere la loro stessa statura di discepoli del diritto e della pace, perché nulla si può trasmettere che nello stesso tempo non sia imparato e fatto proprio. Questa stessa esigenza, e analoghe responsabilità, fanno appello a tutti gli insegnanti delle scuole di ogni ordine e grado. 5.3 L'associazionismo I luoghi di aggregazione, quali le associazioni ed i movimenti, sono naturalmente spazi di democrazia, partecipazione ed educazione alla pace. Fa pensare, quindi, il fatto che essi siano sempre più disertati e svalutati, e che sempre più manchino di quel respiro universale che li caratterizzava, chiudensi spesso nel perseguimento di fini particolaristici e di categoria. Al di là della valutazione che si può dare di questo fenomeno, esso richiama le associazioni ed i movimenti a riqualificarsi in ordine ai temi e alle esigenze della pace, dato il momento critico che stiamo vivendo. Quindi, essi potrebbero assumere responsabilmente anche il ruolo di Comitati per la Democrazia Internazionale, raccordandosi e convergendo in un movimento per la Democrazia Internazionale che, facendo salve le specificità e l'autonomia organizzativa di ciascuno, e senza caratteristiche di partito, agisca in forma e con impatto politico, e non solo culturale ed etico, per concorrere, col pensiero e con l'azione, a instaurare "un ordinamento che promuova la giustizia e la pace tra le nazioni e a salvare, come dice la Carta dell'ONU, le future generazioni dal flagello della guerra" che più volte e in più luoghi "nel corso di questa generazione ha portato indicibili afflizioni all'umanità".
5.3.1 I lavoratori Il movimento dei lavoratori ed i sindacati, in modo particolare, dovrebbero riconoscere le nuove frontiere sulle quali si pone e si decide la stessa rivendicazione dei loro diritti. Non è per caso che la Repubblica che ripudia la guerra è la stessa che si dichiara "fondata sul lavoro"; non è per caso che la Carta dell'ONU che denuncia la guerra come flagello, fonda la sicurezza e la pace nel mondo sull'affermazione dell'eguaglianza dei diritti, sulla cooperazione internazionale per realizzare la piena occupazione e sulla promozione di un più alto tenore di vita e di condizioni di progresso e di sviluppo economico e sociale. La devastazione della base materiale della vita - ponti, fabbriche, centrali elettriche, acquedotti - causata dalla guerra, così come si combatte ormai oggi, è la devastazione della vita stessa, e la distruzione degli strumenti e delle fonti del lavoro, che è l'opera della mente e delle mani dell'uomo, è la distruzione dell'uomo, non solo dei suoi mezzi di sussistenza. Sindacati e lavoratori non possono accettare il ripristino di un sistema che rimette la guerra al centro dei rapporti internazionali, come possibilità sempre pronta all'esercizio: esso non potrebbe inoltre che riaprire la corsa agli armamenti, dirottare verso queste spese volumi crescenti di risorse, e indurre i perdenti di oggi a investire in armi più costose e potenti, per poter resistere domani o addirittura, a propria volta, prevalere. Il lavoro come fonte di diritti, la capacità di stabilire il nesso tra lavoro e diritti, il rapporto tra pace e lavoro appartengono alla grande tradizione della cultura operaia. E l'internazionalismo, benché appannato, non solo non è superato, ma è diventato l'orizzonte necessario di ogni cultura. Al movimen to dei lavoratori, al sindacati, si può chiedere di riprendere e dare nuovi sviluppi a tale cultura, e di metterla, come cultura non più di parte, al servizio della cultura di tutti, collocandosi al centro dei grande dibattito pubblico che ha per oggetto il futuro comune. Sarebbe altrettanto importante che essi si assumessero come compito politico quello di preservare l'identità di tale cultura dalla omologazione alla cultura dominante veicolata dai mass media, anche attraverso la ricerca di nuovi strumenti informativi e di comunicazione autonomi, ma non chiusi e corporativi.

5.4 Le chiese "Il cristiano è colui che ha accettato di vivere il discorso della montagna. Se cerca di metterlo in pratica non può limitarsi a viverlo nel segreto della sua stanza, perché gli è chiesto, per esempio, di porgere l'altra guancia, di fare due miglia se viene costretto a farne uno, di non resistere al male. Dunque il cristiano deve lasciarsi ispirare dal discorso della montagna in tutte quelle forme di comportamento pubblico che da esso sono previste" . Il discorso della montagna (Mt 5-7), oltre a richiamare fortemente i cristiani allo stile pacifico e nonviolento del loro Maestro, pone un'attenzione privilegiata nei confronti dei poveri e dei diseredati, nei confronti di coloro che nella società non hanno voce: è un invito all'edificazione di una convivenza umana che strutturalmente, non solo occasionalmente o per la buona volontà di qualcuno, ponga sullo stesso piano il diritto di tutti a partecipare e a realizzare se stesso, una società di "fratelli". Le chiese hanno il dovere di farlo, in proprio e collaborando con altri soggetti, attraverso l'educazione, che comprenda chiaramente questi contenuti, ispirati all'universalismo cristiano, e attraverso la testimonianza. In questo senso, un forte impulso educativo potrebbe essere apportato anche dall'approfondimento del cammino ecumenico,