UFFICIO NAZIONALE PER I PROBLEMI SOCIALI E IL LAVORO
DELLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA

Le radici antropologiche e culturali della crisi ecologica

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31 Maggio 2000

o definito nell'incontro ecumenico di Basilea. E in questo contesto culturale contemporan eo che dovrà situarsi qualunque discorso e qualunque azione della Chiesa. La base di un simile discorso sarà la fede in Dio creatore e una coscienza morale ravvivata dalla responsabilità dell'uomo per i suoi fratelli e sorelle e per la natura. Questo discorso della Chiesa sarà certamente più convincente dal momento che potrà appoggiarsi ad una concezione precisa del senso dell'uomo e dei suoi valori morali fondamentali e universali. Ma, anche se questo discorso si appoggerà su basi solide della fede cristiana, resterà soltanto un "metallo che risuona, un cembalo squillante", se non sarà accompagnato nella nostra società dei consumi, da una condotta pratica dei cristiani alternativa in rapporto ai loro ambienti di vita. Il degrado dell'ambiente è oggi talmente grave da rappresentare uno dei problemi più urgenti del nostro tempo. Questo è un problema eminentemente di ordine morale. In effetti esso è l'esito dell'atteggiamento che l'uomo ha assunto nei confronti di se stesso, individualmente e collettivamente. In questo comportamento si riflette tutta la nostra cultura contemporanea nata dal movimento del secolo dei lumi e della rivoluzione scientifica e tecnologica moderna. La civilizzazione tecnologica ha introdotto in tutti i campi della vita degli uomini degli stravolgimenti inediti nella storia dell'uomo. Per quanto lontano nel passato ci spingiamo con lo sguardo storico, non riusciamo a vedere degli stravolgimenti così importanti e decisivi, paragonabili alla rivoluzione scientifica e tecnologica moderna. Mi propongo qui di richiamare i tratti più significativi di questo cambiamento.
1. L'uomo - maestro e possessore
Due pensatori, uno inglese e uno francese, esprimono con chiarezza e precisione il primo cambiamento dell'atteggiamento dell'uomo moderno rispetto alla natura. Sono Francesco Bacone e Renato Cartesio; entrambe ci dicono che il fine degli sforzi riformatori della scienza contemporanea è di rendere l'uomo capace di sottomettere a sé la natura. Instauratio Magna Imperii humani in Naturam è il titolo stesso dell'opera incompiuta di Francesco Bacone che già esprime la sua ispirazione e la sua intenzione profonda. Si tratta, secondo l'autore, di instaurare nella natura "imperium humanum", l'impero umano, la dominazione umana della natura. Più chiaramente ancora, Renato Cartesio ci dice nel suo Discorso sul metodo che esiste una legge che "ci costringe a procurarci, per quanto a noi possibile, il bene generale di tutti gli uomini". La stessa scienza offre all'uomo conoscenze „utilissime per la vita", vale a dire che permettono all'uomo di divenire "maestro e possessore della natura". Cartesio, che nella medesima opera dice che per lui le verità della fede sono sempre state le prime in quanto a credibilità, sa anche che la dominazione dell'uomo sulla natura non è incondizionata e illimitata. E per questo forse che egli attenua la sua affermazione dicendo "come maestro e possessore". Egli considera, però, che la vocazione di qualunque uomo di scienza sia di essere utile agli uomini. E per questo che occorre abbandonare la filosofia speculativa che si insegna nelle scuole e consacrarsi alle scienze pratiche che possono aiutare gli uomini nelle loro difficoltà e pene. Ma ciò che è ancora più fatale per le conseguenze che genera, è il dualismo di spirito e corpo introdotto da Cartesio. Certamente, Cartesio non fa che esprimere i sentimenti dell'epoca razionalista in cui egli stesso vive, quando descrive lo spirito come puro pensiero e la materia corporea come l'estensione. Esse non hanno nulla a vedere l'uno con l'altra. In ragione di questo dualismo, il mondo esterno allo spirito è ridotto a essere puro oggetto dello spirito. Ma vi è ancora dell'altro. Benché Cartesio sia razionalista, egli aderisce all'idea nominalista e volontaristica secondo la quale le verità del mondo non provengono dall'essenza razionale di Dio stesso. Al contrario, esse sono create in maniera assolutamente sovrana, da Dio. Il senso di questa presa di posizione è chiaro: se la verità del mondo, se il suo statuto ontologico e la sua struttura dipendono unicamente da un atto e da una decisione sovrane di Dio, il mondo può anche divenire l'oggetto delle azioni e delle decisioni libere degli uomini, il mondo può essere cambiato.
2. La secolarizzazione del messaggio biblico
Molti dei nostri contemporanei si sono posti la domanda: in quale misura il messaggio biblico è esso stesso all'origine di questa aspirazione dominatrice dell'uomo? E' così che alcuni critici del giudaismo e del cristianesimo hanno accusato questi di essere i primi responsabili della crisi ecologica moderna. E vero che l'atteggiamento dell'uomo occidentale ha le sue radici nella concezione biblica dell'uomo e della natura. Bisogna dire tuttavia che l'atteggiamento distruttore dell'ambiente della tecnologia moderna non deriva dal messaggio biblico autentico, ma da una secolarizzazione di questo messaggio. Secondo la Bibbia, l'uomo non è il padrone assoluto e possessore incondizionato della natura. Egli ne è piuttosto garante e amministratore, responsabile nei suoi confronti e nei confronti degli uomini per i quali la deve gestire in maniera utile e fruttuosa per i suoi fratelli e le sue sorelle. La Bibbia esclude qualunque idea di proprietà assoluta e più ancora la sua appropriazione e sfruttamento egocentrico. Dio ha affidato all'uomo l'amministrazione e la sovrintendenza della terra di cui lui resta il creatore e maestro.
3. Una scienza costruttivista
Ora, l'atteggiamento generale e secolarizzato dello spirito moderno nei confronti della natura esterna non si vede solamente come autonomo ed emancipato rispetto al Dio creatore. C'è di più. L'atteggiamento moderno nei confronti della natura si distingue dall'atteggiamento medievale per il suo carattere attivo e costruttivista. Lo scienziato non imita la natura. Egli non la riproduce, la ricostruisce. Egli costruisce modelli esplicativi cercando il modo affinché la natura vi obbedisca. E la costruzione che dona il senso autentico del fenomeno spiegato. Non è quindi solo osservato, bensì ricostruito. Anche nella conoscenza del mondo l'uomo diviene il suo costruttore. La comprensione diviene quindi la costruzione. Di qui deriva una certa aggressività nei confronti della natura. Questa aggressività, che noi costatiamo e che costituisce la radice profonda del problema ecologico, ha la sua origine nella piega costruttivista che assume la stessa scienza moderna. Essa non è quindi un fenomeno accidentale, non è soltanto la conseguenza di un disordine morale ed esterno alla ricerca scientifica. No, essa è legata alla natura stessa del procedere scientifico. In ragione di questo cos truttivismo, la scienza moderna si trasforma essa stessa in tecnologia La tecnica non è quindi solo una applicazione secondaria della scienza, non è soltanto una conseguenza secondaria e aleatoria del sapere scientifico. E la scienza stessa che, attraverso le proprie procedure interne si trasforma in tecnologia, in "savoir faire". Sapere è saper fare. Senza un "saper fare", il sapere non è più un autentico sapere. Ora, questo costruttivismo scientifico si trasforma rapidamente in aggressività nei confronti della natura, dal momento che questa non è più null'altro che l'oggetto puramente utilitaristico dell'uomo. E la caratteristica tipica e centrale del rapporto moderno dell'uomo con la natura. Hans Jonas osserva che è uno dei cambiamenti più decisivi introdotti dalla scienza moderna nel suo atteggiamento nei confronti della natura e che è ancora in ragione di questa metodologia scientifica che la scienza moderna è intimamente legata all'aggressività tecnologica. "Il metodo analitico e sperimentale che si impone nel XVII secolo e che non ha più un atteggiamento contemplativo, ma aggressivo, nei confronti del suo oggetto, contiene già nel suo spirito l'abilitazione a - e nei suoi risultati la via verso - un rapporto attivo con il conosciuto. La possibilità di una applicazione pratica fa parte dell'essenza teorica delle scienze moderne della natura stessa; vale a dire che il potenziale tecnologico gli è intrinsecamente innato e la sua attualizzazione accompagna ogni passo della sua crescita. La dominazione prende il posto della contemplazione della natura. Così è stato introdotto il tema del potere e del suo esercizio."
4. Il tempo delle utopie
Il progetto moderno di una sottomissione completa della natura e del suo sfruttamento è una conseguenza estrema della secolarizzazione della speranza cristiana. Qui ancora, bisognerebbe analizzare più nel dettaglio l'influenza del nominalismo medievale che, attraverso il suo scetticismo e il suo agnosticismo, ha spi nto gli uomini a consacrarsi in modo sempre più esclusivo agli affari di questo mondo. Io non posso qui che ricordare ciò che Max Weber ci dice dell'influenza dell'etica protestante e più in particolare calvinista sullo spirito capitalista moderno. Ma l'utopismo post-cristiano è culminato nel marxismo. Si sa quale seguito abbia suscitato presso il grande pubblico l'opera monumentale del pesatore marxista Ernst Bloch "Das prinzip Hoffnung", Il principio della speranza. Non si trattava della speranza basata sulla fede cristiana in un Dio Salvatore. Al contrario, questa fede è stata criticata e rifiutata come una illusione che allontana l'attenzione degli uomini dai "premi" della loro attesa attiva della salvezza. E' grazie ai propri poteri intellettuali e morali, vale a dire con i mezzi della rivoluzione scientifica, tecnologica e sociale, che l'uomo ha potuto donarsi la salvezza. Ma ciò che è più grave in questa utopia moderna, che supera di molto l'opera del marxista tedesco, è la fiducia enorme e senza riserve nel progresso dell'umanità. Questo non è possibile se non grazie a una fede cieca nella bontà fondamentale dell'uomo. Ma più fondamentalmente ancora, questa speranza smisurata diviene molto rapidamente un vero "oppio dei popoli" molto pericoloso. come dice ancora Hans Jonas: "Nella tecnica... questo successo conduce in seguito, grazie al suo sfavillio accecante, pubblico e inglobante tutti i campi della vita - un vero corteo trionfante - al fatto che nella coscienza comune l'impresa prometeica come tale passa dal ruolo di semplice mezzo (cosa che è del resto qualunque tecnica) a quello di fine e che "la conquista della natura" appare come la vocazione dell'umanità: l'homo faber al di sopra dell' homo sapiens (il secondo diviene il mezzo del primo) e il potere esterno appare come il bene sovrano - evidentemente per la specie, e non per l'individuo. E dal momento che non vi è ancora qui una fine, allora sarà una 'utopia' del perpetuo superamento di sé verso un a meta infinita.
5. La frammentazione del sapere e del fare
Ora questo legame intimo tra la scienza e la tecnologia e la loro fusione sono state rese possibili grazie a un altro fenomeno tipicamente moderno: la frammentazione delle discipline del sapere umano. Inizialmente, la frammentazione del sapere umano in discipline relativamente o completamente indipendenti le une dalle altre è stata una conseguenza inevitabile della divisione del lavoro e di conseguenza anche della divisione del lavoro teorico. La divisione del lavoro si è reso necessario a causa sviluppo straordinario delle conoscenze circa i fenomeni naturali. La separazione più grave è quella che esiste tra la scienza pura dei fenomeni naturali e la riflessione filosofica sul senso e sui valori della vita, tra la ragione teorica e la saggezza pratica, tra la descrizione e la prescrizione, tra la constatazione dei fatti e la valutazione dei valori. Si tratta della frammentazione dell'unico soggetto umano in istanze teoriche e pratiche frammentarie e autonome le une dalle altre. E là che noi possiamo vedere le cause più profonde della crisi ecologica moderna. E noto che prima dell'epoca moderna, l'universo dell'uomo e anche l'universo del suo sapere erano una totalità unificata e orientata. Era una totalità teleologica in cui ogni parte aveva il suo posto e anche la sua funzione all'interno dell'insieme. "L'unità e l'interdipendenza delle funzioni, dei fini e dei criteri è la situazione normale e originale dell'umanità". Ciò faceva sì che ogni attività, funzione o entità strutturale possedesse molteplici fini e fosse sottoposta a diversi criteri. Il re è l'amministratore, lo stratega militare, il saggio, il legislatore, il giudice e il pontefice supremo della città. I ruoli e le funzioni si accumulano e si completano; allo stesso modo i loro significati, i loro obiettivi e le loro metodologie. In questa visione delle cose i fatti e i valori, la scienza e la saggezza pratica, la scienza, la fi losofia e la religione non soltanto convivono, ma si attraversano reciprocamente, si compenetrano e si arricchiscono, essendo tutto orientato nello stesso senso, nel senso della questione di senso dietro ad ogni cosa. Ora, con la divisione del lavoro, questo groviglio di funzioni di significati si dipana e ciascuna disciplina acquisisce la sua propria consistenza, il proprio ruolo, la propria dignità e la propria metodologia. Essa diviene unicamente ciò che essa è. Di conseguenza, ogni disciplina si limita a un solo ruolo, quello che gli è il più immediatamente inerente. Ciò gli permette di razionalizzarsi e di escludere dal proprio campo qualunque preoccupazione che non entri nel quadro delle sue competenze e dei suoi compiti immediati. Ciò contribuisce a un raffinamento dei metodi e a una efficacia senza precedenti. Ma ciò contribuisce anche a una compartimentazione e a un ripiegamento di ogni ramo della scienza su se stesso. Il mondo del sapere umano non è più una totalità organica e ordinata, ma piuttosto una giustapposizione di differenti conoscenze frammentarie. "Così, mentre si accresce il capitale totale del sapere, il sapere dell'individuo diviene sempre più frammentario". Di conseguenza, la morale e la questione dei valori dell'uomo sono giudicati come discipline autonome che non hanno nulla da ricevere dalle altre conoscenze umane, e nemmeno nulla da dare loro.
6. La fine della visione finalista dell'uomo e dell'universo
Per questa ragione, la modernità abbandona ancora un'altra preoccupazione, essenziale e centrale per il pensiero antico e medievale. Si tratta della questione di sapere quale sia il fine ultimo dell'universo e dell'uomo. In passato, tutto il sapere era organizzato attorno a questa domanda centrale sul senso e sul fine di ogni cosa. L'esempio più chiaro di questa concezione teleologica del sapere umano era l'aristotelismo. In questo quadro teleologico il fine ultimo dell'esistenza domina la vita di tutti i giorni: la vita pri vata e la vita pubblica di tutti i cittadini. I diritti e i doveri dell'uomo sono determinati in funzione del suo fine, del suo telos. Ora, la modernità abbandona la domanda del fine. In generale, si considera che questa preoccupazione dei fini riveli l'antropomorfismo e anche l'egoismo degli uomini che vorrebbero che le cose funzionassero nello stesso modo degli affari degli uomini e che esse obbedissero ai desideri secreti di questi. L'abbandono della visione finalista della storia ha una conseguenza enorme per la comprensione dell'uomo e della natura. Se l'uomo non ha un fine pre-esistente, se non ha un destino deciso indipendentemente da lui e se la stessa cosa vale anche per la natura, egli non è che un individuo libero di fare di se stesso e della natura ciò che egli vuole. Se egli stesso e l'universo non hanno un senso, egli può darselo individualmente e arbitrariamente e imporlo anche alla natura esterna. E' un aspetto molto inquietante dell'individualismo contemporaneo. Così, la natura diviene un oggetto di cui l'individuo può liberamente disporre come vuole. E certo che la visione finalista del mondo e dell'uomo è intimamente legata alla concezione religiosa. Con l'abbandono della visione religiosa del mondo, la visione teleologica diviene problematica. E non soltanto la visione teleologica, ma anche tutta l'etica riguardante la salvaguardia dell'ambiente, così necessaria oggi. E ancora Hans Jonas che lo constata: "Si era già lasciato intendere che la fede religiosa disponga già qui di risposte che la filosofia non può che cercare con una possibilità incerta di successo".
7. Il relativismo morale
La conseguenza ultima della separazione dei fatti e dei valori e dell'abbandono della visione finalista del mondo è il relativismo morale. Tutta la cultura scientifica del mondo moderno sottolinea la distinzione tra il mondo esterno dei fenomeni oggettivi, osservabili in modo imparziale, e il mondo interiore e soggettivo, inaccessibile a una qua lsiasi osservazione. La crisi morale moderna deriva da questa dicotomia. E la dicotomia tra i fatti e i valori, tra l'osservazione obiettiva e la valutazione parziale, tra l'oggettività e la soggettività, tra la scienza e l'etica, tra la ragione teorica e la ragion pratica. Il pensiero scientifico si considera come il solo pensiero universale e incompatibile con le valutazioni morali. Tutto l'universo dei valori e dei principi morali è così marginalizzato e relegato nell'ambito della soggettività irrazionale. Il mondo della politica, dell'economia e delle relazioni umane è abbandonato a vantaggio della ragione puramente strumentale, affinché essa ne disponga per fini puramente soggettivi che non hanno nulla a che vedere con la scienza e la ragione umana. I fini ultimi delle nostre attività sono, secondo questa concezione, irrazionali e non hanno nulla in relazione con ciò che può essere determinato e fondato razionalmente. Tutto ciò che resta alla ragione, è di trovare i mezzi o gli strumenti più efficaci per ottenere o raggiungere questi fini ultimi. E per questo che si chiama una tale ragione 'ragione strumentale'. Quanto ai fini ultimi, la ragione non ne è competente, dal momento che questi fini sono necessariamente appartenenti all'ordine dei valori. Ora, i valori non entrano negli ambiti della razionalità umana. E in ragione di questa dicotomia tra i fatti e i valori, tra il discorso all'indicativo e le ingiunzioni all'imperativo che la scienza e la tecnologia non conoscono e non riconoscono oggi alcuna limitazione, alcuna norma proveniente dall'esterno delle medesime. In quanto scienze, in quanto saperi autonomi per definizione, queste non accettano alcuna limitazione che venga dall'esterno, e dall'interno di se stesse non ne possono ricevere alcuna. La sola limitazione che potrebbe imporsi alla ricerca scientifica e allo sfruttamento tecnologico delle loro scoperte potrebbe venire da un'etica filosofica. In quanto filosofica, essa apparterrebbe a un ambit o del sapere autonomo, in quanto etica, essa sarebbe in posizione di porre dei valori o degli imperativi morali. Ma una tale etica manca e oggi si contesta anche l'idea di un'etica universalmente valida e obbligatoria per tutti gli uomini.
8. La mentalità del consumo
Fino a qui ho parlato delle radici teoriche della crisi ecologica. Occorre però considerare un altro fattore altrettanto importante. E la mentalità del consumo in un'opinione pubblica dominata dalla sete del consumo, la politica è sollecitata ad aumentare costantemente la produzione e ad abbassare i prezzi per rendere accessibile una quantità sempre più grande di beni materiali a un numero sempre più grande di cittadini. Questa sete illimitata di beni di consumo domina nella mentalità di oggi ed è essa che è il fattore più determinante nella crisi ecologica attuale. Tutto questo gioco politico è stato ben presentato da C.F. Weizsäcker in occasione dell'assemblea ecumenica di Seul nel 1990 quando disse: "Io conosco un certo numero di uomini politici che vogliono fare le cose necessarie, ma che sanno che non appena fanno una cosa ragionevole essi perdono le prossime elezioni. E per questo motivo che io sono contro l'idea che gli uomini politici siano effettivamente colpevoli. No, siamo noi che siamo colpevoli". Si tratta di quell'opinione pubblica che vuole che il progresso economico si persegua in modo indefinito e che il consumo dei beni materiali sia sempre in rialzo e che ogni anno si possa registrare un miglioramento generale della vita. La qualità della vita è più spesso valutata in base ai consumi. E' questo atteggiamento edonista generalizzato che rappresenta il fattore più determinante della crisi ecologica. Ora è chiaro che non si potrà accelerare indefinitamente il progresso economico sulla terra. Ciò che si impone a noi, almeno ai paesi più o meno ricchi, è piuttosto la recessione che la crescita. Pertanto la crescita è necessaria per la parte povera del mondo. Ciò che avviene realm ente, però, è esattamente l'inverso: i paesi poveri diventano ancora più poveri e i ricchi ancora più ricchi. Il problema è quindi doppiamente grave. Non è sufficiente imporre una restrizione alla crescita dei paesi avanzati, ma bisogna anche stimolare la crescita dei paesi poveri. Sarebbe quindi necessaria una politica mondiale globale altamente responsabile e morale. Ciò non significa che gli uomini dei paesi ricchi debbano rinunciare al progresso. L'uomo è creato creatore. Egli è quindi chiamato allo sviluppo. Tutta la questione consiste nel sapere di quale sviluppo e di quale crescita si tratti. La crescita umana consiste soltanto nell'accumulazione del potere sulla natura e sugli altri, così che nel consumo sempre crescente di una minoranza di fronte a una miseria sempre più profonda e sempre più estesa della maggioranza degli uomini? O invece, non occorre forse promuovere un altro progresso, il progresso della qualità della vita, una qualità estesa in modo più integrale e personale, una qualità della cultura e della spiritualità, dell'educazione e della qualità delle relazioni tra gli uomini?
9. Conclusione
E dunque la questione morale concernente la qualità della vita che è in gioco. La concezione materialista ed edonista della qualità della vita umana esige una crescita del consumo e del possesso. In questo modo essa stimola una società e un'opinione pubblica che giudica il progresso umano unicamente in cifre di affari. E poiché le risorse naturali sono limitate e poiché l'uomo è oggi capace di produrre nella natura effetti irreversibili e danni irreparabili, una tale cultura universale deve necessariamente nascere da una crisi ecologica profonda. La crisi ecologica moderna è dunque una crisi innanzitutto morale: una crisi della concezione dell'uomo, del senso della propria vita individuale e collettiva e del suo posto nella natura. E così infatti che è stat