UFFICIO NAZIONALE PER I PROBLEMI SOCIALI E IL LAVORO
DELLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA

La riforma del regionalismo italiano

14 Febbraio 2002

iale (Stati Uniti, Nigeria, Argentina, Brasile, Messico), ma a nche in Paesi che hanno un regime parlamentare (Germania, Belgio, Australia, Canada, India, Malaysia) e in Paesi che hanno un regime semipresidenziale (Austria) o addirittura direttoriale (Svizzera). Non c'è quindi una connessione necessaria tra presidenzialismo e federalismo, anche perché non è vero che il presidenzialismo garantisce un governo più autorevole, a parte la personalità che possono avere i Presidenti americani. Questa affermazione va demitizzata dal punto di vista sia della connessione necessaria federalismo-presidenzialismo, sia per quel che riguarda l'affermazione secondo cui il presidenzialismo è un regime più autorevole e più forte; spesso è anche un regime soltanto più inefficiente.
Marco Olivetti
La riforma del regionalismo italiano Note sulla legge costituzionale n. 3 del 2001
1. Il rapporto tra Stato ed autonomie: il più importante cantiere della transizione costituzionale.
La questione del rapporto tra Stato e Autonomie è uno dei grandi cantieri della transizione costituzionale iniziata in Italia all'inizio degli anni novanta, accanto al problema della forma di governo, della magistratura e ad altre questioni minori (ma non priva di rilevanza), dalla Corte costituzionale all'integrazione europea. Fra i vari cantieri, quello delle autonomie è forse quello nel quale le strutture degli edifici esistenti maggiormente evidenziano crepe e il bisogno che intorno si mettano delle impalcature non solo per rifare le facciate, ma anche per rinforzare i pilastri. Rinforzare i pilastri significa che in questo campo la riforma del sistema delle autonomie non significa necessariamente stravolgere la Costituzione o sfigurarla, ma dare ad essa compimento. La Costituzione del 1947, infatti, contiene nel suo art. 5 un'opzione molto forte: muovendo da un omaggio alla tradizione giacobina della Repubblica "una e indivisibile", l'articolo 5 "riconosce e promuove le Autonomie locali" (si rilevi il senso di entrambi questi verbi: si "riconosce" qualcosa che è pre-esistente allo Stato e lo si promuove, nel senso che se ne favorisce lo sviluppo); "attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo e adegua i criteri e i metodi della sua legislazione alle esigenze dell'autonomia del decentramento": alla luce di questa disposizione, l'autonomia e il decentramento avrebbero dovuto diventare un modo di leggere la stessa natura dello Stato e della Repubblica. A questa enunciazione solenne nell'articolo 5 faceva però seguito, negli art. 114 e ss. della Costituzione, un impianto del rapporto Stato-Autonomie molto più timido. Una timidezza che esisteva già nel testo della Costituzione e che poi è stata accentuata dalla legislazione di attuazion e e dalla prassi, in particolare negli anni dal 1947 al 1970. E purtroppo non c'è stata un'inversione di tendenza nemmeno nel ventennio successivo, sino al 1990. E occorre riconoscere che chi afferma che la Corte costituzionale non ha favorito il radicamento delle Regioni non ha tutti i torti; anche le critiche hanno ad oggetto la giurisprudenza più recente della Corte costituzionale, mentre l'antiregionalismo è molto più risalente, e si è espresso in particolare tra il 1970 e il 1990. Ma se l'antiregionalismo della Corte costituzionale è uno dei fattori che hanno impedito che il regionalismo si radicasse nell'ordinamento, la timidezza nel rendere operativa l'autonomia traspare già nel testo della Costituzione: ad esempio, la funzione legislativa regionale, che doveva essere una delle grandi novità della Costituzione del 1947, è stata svilita con il riconoscere alle Regioni ordinarie solo una competenza concorrente (art. 117, testo originario). Poi, nell'attuazione, questa competenza concorrente è stata ulteriormente compressa, perché le leggi statali hanno finito per riservarsi tutte le scelte importanti, facendo delle Regioni degli enti con una competenza poco più che regolamentare. Ne segue che le grandi promesse dell'articolo 5 sono rimaste tali. La riforma del sistema delle autonomie (avviata all'inizio degli anni '90 e naufragata con il fallimento della Commissione D'Alema nella primavera del 1998) è stata rimessa in moto alla fine del '98 da un disegno di legge costituzionale presentato dall'allora ministro delle riforme istituzionali del I Governo D'Alema, Giuliano Amato. Tale disegno di legge di riforma costituzionale ha poi subito una sorta di sdoppiamento: una parte è stata stralciata per confluire nella legge cost. n. 1 del 1999, la quale ha introdotto, con operatività già dal 2000, l'elezione diretta dei Presidenti delle Regioni ed ha ampliato l'autonomia statutaria delle Regioni. La seconda parte di questa riforma, consistente nella riforma globale del Titolo V è stata inizialmente contrattata tra maggioranza e opposizione, tra Parlamento statale e Regioni, Province, Comuni, con il solo dissenso della Lega e di Rifondazione comunista, ma a seguito dell'accordo tra il Polo delle Libertà e la Lega Nord che ha dato vita alla Casa delle Libertà le forze raccolte in quest'ultima coalizione hanno rifiutato categoricamente la prosecuzione del cammino riformatore. Quest'ultimo è dunque proseguito con il sostegno della sola maggioranza di centrosinistra della XIII legislatura. Pertanto la riforma del titolo V, essendo stata approvata l'8 marzo 2001 dal Senato (come, pochi giorni prima, dalla Camera) solo a maggioranza assoluta, ed essendo stato richiesto in conseguenza di ciò un referendum confermativo sia dal centro-destra che dal centro-sinistra, è entrata in vigore solo a seguito del referendum svoltosi il 7 ottobre 2001. Dopo la sua promulgazione da parte del Presidente della Repubblica, essa è divenuta la legge costituzionale n. 3 del 2001.
2. La Repubblica delle autonomie Possiamo descrivere il contenuto della legge costituzionale n. 3 del 2001 evidenziando i cinque pilastri su cui poggia l'edificio delle autonomie da essa ristrutturato. Il primo pilastro ci aiuta a dare una definizione di questa riforma. Lo possiamo prendere dall'art. 114, 1° comma: "La Repubblica è costituita" (si consideri con attenzione il verbo utilizzato) "dai Comuni, dalle Province, dalle città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato". Il contenuto normativo di questo articolo è piuttosto impalpabile dal punto di vista strettamente giuridico, ma esso esprime l'ideologia della riforma: quella che potremmo chiamare la Repubblica delle Autonomie, l'idea, cioè, di una statualità che nasce dal basso, rovesciata rispetto al modo in cui siamo abituati a comprenderla, dall'alto, secondo l'ordine Stato-Regioni-Province-Comuni. La statualità, secondo l'art. 114, nasce invece dal basso, dal livello di governo più vicino al cittadino. Ovviam ente qui vi è una delle chiavi ideologiche della riforma: il principio di sussidiarietà. Si tratta di un principio sviluppato dalla dottrina sociale cristiana per quel che riguarda il rapporto Stato-società civile e poi dal costituzionalismo americano e tedesco, per quel che riguarda il rapporto tra i diversi livelli di governo: un principio che situa la sede idonea per l'adozione delle decisioni nel livello di governo più vicino al cittadino e solo in via sussidiaria nei livelli di governo più lontani. L'art. 114 consente anche di rilevare la differenza fondamentale tra la Repubblica delle autonomie ed il federalismo. Quest'ultimo, strettamente inteso, è un sistema a due livelli territoriali di governo: negli Stati Uniti, all'entità rappresentata dalle 13 ex colonie (i tredici Stati della costa orientale divenuti indipendenti dalla Gran Bretagna nel 1776), si sovrappone un altro livello, quello rappresentato dalla federazione, che poi cresce fino a diventare prevalente. Negli USA si ha un sistema duale di governo nel quale vi sono le due "velocità" rappresentate dalla federazione e dagli Stati membri. Gli enti locali minori (comuni, contee) sono, in qualche modo, parte degli Stati membri, l'equivalente delle nostre Regioni. L'art. 114, invece, disegna un sistema in qualche modo nuovo, che non ha molti riscontri nel diritto comparato, in cui soggetti della Repubblica sono non solo lo Stato e le Regioni, ma anche le Province, i Comuni e le Città metropolitane. L'idea è più quella della sussidiarietà che quella del federalismo in senso stretto. Sono possibili due comparazioni con altri stati politicamente decentrati, nessuno dei quali, per la verità, particolarmente onorevole. Il primo è la Costituzione Russa vigente, che individua una molteplicità di soggetti della federazione: ma in quel caso si tratta di nomi diversi per soggetti che non sono sovrapposti tra loro come una Provincia, un Comune, una Regione. In quel sistema vi sono diversi tipi di soggetti della federazione: la città di Mosca, a differenza di Roma capitale, è un membro della federazione, così come lo è il Tatarstan oppure la città di Leningrado; qui, invece, la città di Roma è al tempo stesso parte della provincia di Roma, della Regione Lazio e dello Stato e della Repubblica. Quindi i diversi soggetti sono comunque sovrapposti fra di loro. Un'analogia è possibile anche con alcuni federalismi dell'America Latina, che sono federalismi a tre livelli: poder municipal, poder statual e poder federal (Messico, Brasile, Venezuela). Comunque la filosofia di fondo della riforma è quella di una statualità che nasce dal basso. Questa visione della sussidiarietà verticale si completa con la ricezione nel testo costituzionale anche della sussidiarietà orizzontale, vale a dire del riconoscimento del ruolo determinante delle associazioni di cittadini, cioè dei corpi intermedi della tradizione cattolica, dell'associazionismo. L'articolo 118, comma 4, della Costituzione nel nuovo testo dice che "Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l'autonoma iniziativa dei cittadini, singoli ed associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale sulla base del principio di sussidiarietà". L'ultimo comma dell'articolo 118 salda la sussidiarietà verticale con quella orizzontale, sottolineando che la Repubblica delle autonomie non è solo un sistema nel quale la statualità parte del basso ma poi è chiusa verso la società civile ed è onnipotente. E' piuttosto un sistema nel quale - fermo restando la garanzia costituzionale della libertà di associazione - la statualità è al servizio della società civile e non solo promuove le autonomie locali, ma promuove e favorisce l'autonoma iniziativa dei cittadini, senza spogliarsi dei compiti pubblici e senza accedere ad una visione liberal-liberista, dei fini dello Stato e del settore pubblico. Questa prospettiva, quindi, nega sia che lo Stato abbia solo alcune ridotte funzioni e che gran parte delle attività siano riservate ai privati, sia la concezione iperstatalista per cui l'universalità dei compiti pubblici emargina l'autonoma iniziativa dei cittadini. I poteri pubblici devono invece agire in maniera sussidiaria, vale a dire favorendo l'iniziativa dei cittadini, nella misura in cui questa iniziativa vi sia, e favorendola, facendola crescere nella misura in cui essa non vi sia. Se questa è la chiave ideologica di fondo della legge costituzionale n. 3 del 2001, occorre poi verificare come essa venga sviluppata dagli altri pilastri della riforma.
3. Le competenze legislative Il secondo pilastro, importantissimo, è quello riguarda le competenze legislative e che maggiormente caratterizza in senso propriamente federale la riforma. Il sistema costituzionale del 1947 attribuiva alle Regioni delle competenze legislative, conteneva cioè un elenco di materie nelle quali le Regioni erano autorizzate ad adottare leggi. Questo elenco è stato poi integrato da deleghe successive, ma l'idea che valeva era sempre quella che le Regioni avevano alcune ben precise ed enumerate competenze e che il resto era di competenza dello Stato. Non solo: in queste materie la regola era la concorrenza: le Regioni vedevano circoscritta la loro potestà legislativa da principi fissati con legge statale. Il nuovo articolo 117 su questo punto contiene il famoso "rovesciamento" della clausola di attribuzione delle competenze: esso afferma che la competenza legislativa è in primo luogo della Regione. La Regione è l'ente che ha competenza legislativa generale per tutte le materie, salvo quelle che la Costituzione attribuisce allo Stato. Si tratta di un principio rivoluzionario, se preso sul serio e di una norma di tipo federale in senso pieno, come dimostra anche un rapido raffronto con il X emendamento alla Costituzione USA l'art. 3 della Costituzione Svizzera, gli art. 30 e 70 della Legge fondamentale tedesca e l'art. 15, I comma, della Costituzione austriaca. Chi sostiene che la legge costituzi onale n. 3 del 2001 non ha nulla di federale o non l'ha letta oppure non è in grado di capirla. La norma chiave è rappresentata dall'art. 117, 4° comma, secondo cui spetta alle Regioni la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato. Nelle materie nelle quali lo Stato ha competenza legislativa occorre poi distinguere fra quelle nelle quali lo Stato ha competenza esclusiva, cioè fa tutte le scelte, dalle altre nelle quali sopravvive il vecchio modello della competenza concorrente. Si è rilevata l'eccessiva ampiezza dei due cataloghi di materie di competenza statale asserendo che in tal modo, pur rovesciando l'articolo 117, cioè pur dando la competenza legislativa in via generale alle Regioni, la legge costituzionale n. 3 del 2001 si riprenderebbe con una mano quello che dà con l'altra. Su singole questioni si può essere anche occasionalmente d'accordo. C'è senza dubbio un passo indietro evidente: l'articolo 117, lettera s), stabilisce che l'ambiente è materia di competenza esclusiva dello Stato, dove qualcuno ha letto la vocazione centralista dei Verdi, l'idea di poter salvaguardare meglio l'ambiente a un livello nazionale. Questo elenco, però, evidenzia anche delle lacune: non c'è più né tra la competenza esclusiva né tra quella concorrente la circolazione stradale con la conseguenza che la regione Calabria potrebbe adottare il suo Codice della strada; è materia di competenza legislativa concorrente la produzione, il trasporto e la distribuzione nazionale dell'energia (si noti che questa è una materia di competenza concorrente, non esclusiva dello Stato). Questo ci dà l'idea di come, in effetti, questi elenchi aprano ampi spazi nuovi per la legislazione regionale, pur non essendo del tutto privi di alcuni aspetti centralisti, che però si possono anche correggere in seguito. Per quel che riguarda la legislazione, nelle materie di esclusiva competenza regionale, la Regione incontra solo il limite della Costituzione, degli obblighi internazionali e degli obblighi comunitari. Essa, cioè, non è più limitata alla legge statale. Lo statuto regionale potrà, nelle materie che non sono riservate allo Stato o che non sono oggetto di competenza concorrente, fissare i principi che indirizzano la legislazione regionale.
4. Le funzioni amministrative Anche per quanto riguarda le funzioni amministrative la legge cost. n. 3 del 2001 lascia intravedere un approccio rivoluzionario anche se, forse, meno rassicurante. L'articolo 118, che già in passato si occupava delle funzioni amministrative, stabilisce che l'ente competente in via generale ad adottare atti amministrativi non è più lo Stato, non è la Regione, non nemmeno è la Provincia ma è il Comune, cioè l'ente più vicino al cittadino, salvo che, per assicurarne l'esercizio unitario, le funzioni amministrative siano conferite a Province, a Città metropolitane, Regioni e Stato, sulla base dei principi di sussidiarietà, adeguatezza e differenziazione. L'inconveniente è che non è chiaro quali sono le funzioni proprie comunali e qual è l'atto normativo che deve operare in concreto questa distribuzione che dovrebbe avere, bene inteso, come centro e come baricentro il Comune. Si tratta della legge statale o della legge regionale? E quali limiti incontrano queste fonti? Qui c'è al tempo stesso una grande scelta ma anche una "pagina bianca" che dovrà essere riempita dalla legislazione, anche se quest'ultima ha alle proprie spalle le leggi Bassanini, che hanno operato ampi trasferimenti verso gli enti locali e quindi non si situa nel vuoto pneumatico o in una legislazione centralista come quella in vigore nel 1970 o ancora all'inizio degli anni '90. Rimane comunque il fatto che, pur facendo questa scelta di fondo a favore della competenza generale dei Comuni, la legge costituzionale n. 3 del 2001 non ha fissato paletti chiari, come quelli che almeno tendenzialmente sono presenti per la legislazione.
5. L'autonomia finanz iaria Il quarto pilastro è fissato dall'articolo 119, il quale contiene un timido, ma non insignificante, rafforzamento dell'autonomia finanziaria regionale. Nel nuovo articolo 119 si riconosce autonomia finanziaria di entrata e di spesa a Comuni, Province, Regioni e Città metropolitane; tali enti territoriali, oltre ai propri tributi ed alle proprie entrate, possono godere di risorse aggiuntive per promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale; hanno un patrimonio proprio ed è previsto un fondo perequativo. Il grande limite di questo articolo è che, a differenza, ad esempio, della Costituzione tedesca, esso non fissa con chiarezza la ripartizione delle imposte fra i diversi enti. Anche qui c'è una pagina bianca, per alcuni aspetti, una pagina da sviluppare. Forse è uno dei punti deboli, sicuramente un'incognita della riforma.
6. L'abolizione dei controlli preventivi Il quinto pilastro è anch'esso rivoluzionario, come la riforma del riparto di competenze legislative. La legge costituzionale n. 3 del 2001 abbandona il sistema dei controlli preventivi sugli atti legislativi e amministrativi degli enti locali. Un esempio: fino all'8 novembre 2001 una legge regionale poteva essere rinviata dal Governo al Consiglio regionale se l'Esecutivo la riteneva in contrasto con la Costituzione. La Regione, per condurre in porto la sua legge, doveva riapprovarla a maggioranza assoluta, ma anche in tal caso, il governo poteva impedirne l'entrata in vigore impugnandola davanti alla Corte costituzionale. Si trattava di un controllo preventivo, che poteva ritardare anche di anni l'entrata in vigore delle leggi regionali, specie negli anni '80, quando la Corte costituzionale era gravata da un pesante arretrato. Di qui la soggezione della Regione allo Stato e una contrattazione permanente della Regione con il Commissario di Governo e con il Governo per evitare il rinvio e l'impugnazione. Ciò naturalmente senza citare i controlli preventivi sugli atti ammin istrativi, che sono stati di recente smantellati dalla legislazione ordinaria. Su questo la riforma costituzionale ha tagliato il nodo, abrogando l'articolo 125 e l'art. 130 e trasformando da preventivo in successivo il controllo sulle leggi regionali previsto dall'art. 127 - parificando così la posizione della Regione con quella dello Stato. Anche da questo punto di vista, dunque, chi dice che la legge costituzionale n. 3 del 2001 ha un taglio centralista non ha letto la riforma: almeno due elementi, la legislazione e l'abolizione dei controlli, sono chiaramente di marca federale.
7. Le scelte di contorno Vi sono infine alcuni contenuti ulteriori che occorre accennare senza scendere particolarmente nel dettaglio. La riforma mantiene l'impianto del regionalismo a due velocità, vale a dire la presenza di cinque Regioni speciali con le due Province autonome, accanto alle quindici Regioni ordinarie: ciò, nonostante il dibattito, in corso da anni, sul superamento o meno delle Regioni speciali, a parte per quel che riguarda Bolzano e la Val d'Aosta che sono coperte da accordi internazionali. La legge cost. n. 3 del 2001 è consapevole di andare oltre quanto già riconosciuto alle Regioni speciali (come si desume dalla norma transitoria dell'art. 10), ma conserva le Regioni speciali perché rispondono meglio alle esigenze di alcune realtà particolari. Soprattutto, al regionalismo speciale si può ora affiancare un meccanismo di regionalismo differenziato: l'articolo 116 consente infatti di riconoscere alle Regioni ordinarie - non alle Regioni speciali - ulteriori condizioni e forme particolari di autonomia ove queste, le Regioni, lo richiedano. Se la Regione Lombardia vuole ottenere in alcune materie - per esempio, in materia di scuola - competenze più ampie di quelle garantite alle altre Regioni, presenta questa iniziativa. Se raggiunge un'intesa con lo Stato, sentiti gli enti locali della Regione, si adotta una legge statale approvata a maggioranza assoluta e la ma teria in questione può essere "devoluta" alla Regione nei modi e nelle forme definiti da tale legge di "devoluzione". E la devoluzione può riguardare sia la legislazione e sia l'amministrazione della Regione. Ci sono quindi degli spazi, sulla base di questa autonomia più ampia, per dare ulteriori pacchetti di materie, mediante una procedura concordata, alle Regioni che lo chiedano. L'art. 120, comma 2, prevede poi una disciplina del potere sostitutivo statale per il caso in cui le Regioni, le Città metropolitane, le Province e i Comuni contravvengano a norme internazionali, alla normativa comunitaria oppure ci sia un grave pericolo per l'incolumità e la sicurezza pubblica e, ancora, nel caso in cui sia necessario tutelare l'unità giuridica ed economica e i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali: in tali casi il Governo si può sostituire agli enti locali, cioè può intervenire in via sussidiaria. Si tratta di un potere molto penetrante che può svuotare le autonomie, per cui occorre vedere se si riesce a prendere sul serio l'ultima frase di questo articolo che recita: "la legge definisce le procedure atte a garantire che i poteri sostitutivi siano esercitati nel rispetto del principio di sussidiarietà e nel principio di leale collaborazione". Ciò significa che questo potere va sempre esercitato previa consultazione delle Regioni e delle Autonomie locali e all'interno di uno stile di lealtà nei rapporti, e che l'esercizio del potere sostitutivo dovrà essere sempre provvisorio: vale a dire che quando la Regione, la Provincia, il Comune sono in grado di esercitare di nuovo il potere da sé e di adempiere ai loro obblighi, essi possono riprendersi la competenza. Non c'è quindi un esproprio ma soltanto un intervento eccezionale e provvisorio. Inoltre il nuovo articolo 117, comma 5, della costituzione disciplina la partecipazione delle Regioni alla fase ascendente e alla fase discendente della formazione degli atti normativi comunitari. Si crea in tal modo un canale per far sì che, quando la materia è di competenza regionale, la Regione possa partecipare alla formazione degli atti comunitari accanto allo Stato e poi partecipare alla sua esecuzione. Uno dei nodi irrisolti, cioè delle lacune di questa riforma, è la mancanza della Camera delle Regioni: a testimonianza di questa esigenza, una norma transitoria della legge costituzionale n. 3 del 2001 stabilisce che sino alla revisione delle norme del Titolo I della parte seconda della Costituzione (cioè quelle che riguardano le due Camere), i Regolamenti della Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica possono prevedere la partecipazione di rappresentanti delle Regioni, delle Province e degli enti locali alla Commissione parlamentare per le questioni regionali, in modo tale che questa Commissione abbia una voce, in particolare nella formazione delle leggi statali che fissano i principi che vincolano le Regioni nelle materie di competenza concorrente, vale a dire quei principi che possono svuotare la competenza legislativa regionale. Infine, all'articolo 123 - già riformato dalla legge cost. n. 1 del 1999 - è stato aggiunto un comma 4, secondo cui in ogni Regione lo Statuto dovrà disciplinare il Consiglio delle Autonomie locali, quale organo di consultazione fra le Regioni e gli enti locali. Si evoca così ellitticamente uno dei grandi nodi della riforma regionale: il rapporto tra la Regione e gli enti locali, circa la riforma appare ispirata dall'intento di evitare che si passi da un centralismo statale ad un neocentralismo regionale. La logica della sussidiarietà non vuole solo escludere che le decisioni di rilevanza locale siano prese a Roma, ma anche che siano adottate ad es., a Milano, ma che invece siano prese nel Comune di Cusano Milanino o di Solaro. Quale risposta allora al rischio del neocentralismo regionale? In generale, questo la legge cost. n. 3 del 2001 propone un modello policentrico, che non è solo regionalista, ma dà un ruol o forte anche alle altre autonomie e una risposta che il testo offre è far sì che nella Regione, accanto al Consiglio regionale, vi sia un Consiglio delle Autonomie in cui le autonomie fanno sentire la propria voce e che è il pendant della seconda Camera a livello statale. La legge costituzionale n. 3 del 2001 ha dunque delineato uno scenario di riforma globale che dà un'attuazione al principio dell'autonomia e del decentramento molto più seria di quella offerta dalla Costituzione del 1947.
8. I nodi irrisolti della riforma Quali sono i nodi lasciati irrisolti dalla legge costituzionale n. 3 del 2001? Mi pare se ne possano menzionare tre, di cui due reali ed uno immaginario. Il primo è rappresentato dalla Camera delle Regioni: tutti gli Stati federali degni di questo nome - o quasi tutti salvo la Spagna che però, in realtà, è uno Stato regionale più che uno Stato federale - accanto ad una prima Camera, che è la Camera politica eletta dai cittadini della federazione, e che poi almeno nei governi parlamentari dà la fiducia al Governo, è prevista una seconda Camera che rappresenta l'ente autonomo, (Stato membro, Land, Regione o Cantone). Siffatto meccanismo, laddove funziona davvero, è importante perché la seconda Camera, pur non dando la fiducia al Governo, pur non avendo lo stesso potere della prima per la legislazione, ha una voce nel processo legislativo e questa voce, di solito, è più forte nelle materie in cui la Regione ha una parte della competenza, per cui consente alle Regioni di far valere la loro posizione nel procedimento di formazione della legge statale e di tentare di bloccare i progetti di legge che espropriano le Regioni. Si dice correntemente che il federalismo ha due cuori, il cuore dell'autonomia e il cuore della partecipazione: l'autonomia è la sfera che viene riconosciuta agli enti territoriali substatali, la partecipazione è un modo di formazione della volontà dello Stato, che è federalizzato, nel senso che ne sono parte gli enti perifer ici. Se questo è vero, allora una Camera delle Regioni è necessaria. Criticare la legge cost. n. 3 del 2001 perché essa non ha previsto una Camera delle Regioni significa foderarsi gli occhi, le orecchie e quant'altro di lardo, cioè vivere fuori dalla realtà, in quanto è ben noto a tutti che tale riforma non è stata possibile nella XIII legislatura a causa della opposizione corporativa dei senatori di tutti gli schieramenti (di centrodestra come di centrosinistra). Ciò non toglie che l'esigenza di trasformare il Senato in una Camera delle autonomie vada sottolineata anche oggi con chiarezza. Vi è poi la questione del ruolo della Corte costituzionale, che è il guardiano dei confini delle competenze tra Stato e Regioni, per cui, se questo guardiano è, in realtà, una guardia privata di uno dei due soggetti, l'altro soggetto (in questo caso le Regioni) è privo di tutela. Gli Stati federali risolvono, generalmente, questo problema facendo eleggere alcuni giudici costituzionali non direttamente dalle Regioni, come ingenuamente sostengono taluni politici leghisti, ma facendo eleggere alcuni giudici costituzionali dalla seconda Camera, dove sono rappresentati le Regioni o gli Stati membri. Quindi la riforma della Corte costituzionale, in qualche modo, è saldata alla questione della seconda Camera. Infine c'è una leggenda che dall'apparizione della destra italiana sullo scenario politico, cioè dal 1994, si è diffusa ed è diventata una parola d'ordine che sembra indiscussa. La leggenda, da ultimo ripetuta dal Presidente del Consiglio in occasione della presentazione del Governo alle Camere, è che federalismo e presidenzialismo debbano andare sempre assieme e che quindi ad una riforma costituzionale in senso federale debba esserne accoppiata un'altra, volta a modificare la forma di governo in senso presidenziale. Ciò è però semplicemente falso, perché il federalismo esiste in Paesi che hanno un regime presidenz