UFFICIO NAZIONALE PER I PROBLEMI SOCIALI E IL LAVORO
DELLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA

Il significato del lavoro umano

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23 Novembre 1999

con gli altri soggetti umani. La comprensione antropologica del lavoro conferisce spessore e significato esistenziale anche alla sua dimensione etica, che non può restringersi all'esaltazione del valore lavoro secondo la lettura "virtuosa" ed "economica" propria del calvinismo o del puritanesimo americano. Un approccio adeguato deve comprendere il lavoro come un bene per tutti, secondo le capacità di ognuno. Il concetto di lavoro-bene per tutti rimette a una concezione solidale della società e dei beni. Quando, per qualunque motivo, diminuisce la necessità di quantità-lavoro, la solidarietà esige che il lavoro disponibile sia diviso tra tutti i lavoratori potenziali. Il corollario, secondo le capacità di ognuno, comporta una duplice comprensione; la prima: è accettabile e giusto che ci siano lavori differenziati che esigono diversi livelli di preparazione tecnica e di capacità umane; la seconda: è necessario che ogni lavoratore acquisisca le virtù e le abilità specifiche proprie della sua professione o ruolo. Nel mondo del lavoro, insomma, per essere virtuosi e buoni non basta una generica onestà o assiduità; occorrono invece le virtù e le abilità specifiche per eseguire bene i compiti e le funzioni della propria professionalità. Oggi, ci troviamo di fronte a un complesso conflitto culturale: da un lato si accentua la mercificazione del lavoro e dei "talenti" personali, mentre dall'altro si fanno sempre più forti i richiami alla riscoperta del significato antropologico (sociale, etico e spirituale) dell'attività umana. Solo l'affermazione di questa seconda prospettiva può contribuire a costruire e garantire la dignità di ogni persona umana. "Nel nostro tempo diventa sempre più rilevante il ruolo del lavoro umano, come fattore produttivo delle ricchezze immateriali e materiali; diventa, inoltre, evidente come il lavoro di un uomo si intrecci naturalmente con quello di altri uomini. Oggi più che mai lavorare è un lavorare con gli altri e un lavorare per gli altri: è un fare qualcosa per qualcuno" (Centesimus annus, 31). Tra tante nozioni di lavoro quella del testo citato sembra comprendere bene la complessa dinamica dell'attività umana, perché permette di cogliere il senso del lavoro sotto varie categorie complementari: antropologica, sociale e etica. La categoria antropologica è presente in modo ambivalente nel testo biblico della Genesi; nel primo capitolo si dice che Dio costituì l'uomo "signore" della natura; mentre nel secondo si afferma, in modo più realistico, che Dio collocò l'uomo nel giardino dell'Eden perché lo "coltivasse e lo custodisse". L'uomo è associato all'opera divina, creatrice e conservatrice; ma il lavoro non ha ancora lo spessore reale e umano dello sforzo e della fatica, che nasceranno come effetto collaterale del peccato. Dio castiga Adamo legando la sua esistenza al duro lavoro del dissodamento della terra: "Col sudore del tuo volto mangerai il pane" (Gen 3,19). Per secoli il pensiero cristiano ha oscillato tra la valorizzazione del lavoro come partecipazione all'opera creatrice di Dio e la sua svalutazione come maledizione e punizione inflitte per il peccato. Solo nei tempi moderni è prevalsa la nozione positiva del lavoro; demitologizzato, il lavoro appare per quello che è: una categoria antropologica; non qualcosa di imposto dall'esterno, ma un aspetto fondamentale della natura umana. Senza il lavoro l'uomo non si realizza e non realizza le sue opere. Inoltre, il lavoro ha perso, in grande parte, l'identificazione con lo sforzo e la sofferenza per diventare strumento di riuscita e di successo, tanto economico che sociale. Questo risvolto positivo si lega e deriva, fondamentalmente, dalla dematerializzazione del lavoro, un fenomeno in espansione che affida la realizzazione dei prodotti al funzionamento di macchinari sempre più sofisticati piuttosto che all'abilità manuale dei lavoratori, non più opifices, ma programmatori di macchine. Questa mutata situazione provoca evidenti ripercussioni nella struttura dell'identità delle persone. Nel passato, anche recente, la pratica di un mestiere o di una professione per essere estensiva a tutta la vita lavorativa produceva, quasi naturalmente, un'identità sociale e un modo di vita proprio di ogni categoria. Creava solidarietà, interessi di gruppi e visibilità sociale. Nascevano identità sociali forti: la "classe operaia", il "ceto impiegatizio", le "dirigenze ecc. Con la mutazione della natura del lavoro vengono meno tutte le passate identificazioni e ad ogni singolo uomo viene riconsegnato lo sforzo di ricrearsi un'identità personale e sociale. Ne segue una situazione di smarrimento e di incertezza, ma nasce pure un'opportunità per ricrearsi un'identità più ricca e singolare, legata a valori non riconducibili esclusivamente all'esercizio di un mestiere o di una professione. Venendo meno l'identità legata ai "ruoli" professionali ogni persona è spinta a cercare fuori del lavoro i fondamenti della sua collocazione sociale. Ricondotto alla sua dimensione antropologica il lavoro è reinserito nel circuito delle dinamiche dell'agire umano, soprattutto sociali e etiche. Nella prospettiva della socialità il lavoro costituisce un forte fattore di integrazione in tutti i luoghi dell'attività umana, dall'ufficio alla fabbrica; non solo, lo stesso concetto di società si fonda sull'idea di reciprocità e di legame sociale: la mia attività contribuisce al benessere degli altri, come l'attività altrui contribuisce al mio. Il lavoro acquisisce un significato pluridimensionale: strumento di autorealizzazione, di produzione di beni con e per gli altri, e di socializzazione