UFFICIO NAZIONALE PER I PROBLEMI SOCIALI E IL LAVORO
DELLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA

Il lavoro umano alla luce di Cristo “Figlio del carpentiere” di Nazaret

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6 Settembre 2000

i e donne del mondo del lavoro, non dimenticate il lavoro: è cosa necessaria per lo sviluppo nel presente e nel futuro; non banalizzate il lavoro: è cosa grande per voi e per la società; non laicizzate il lavoro: è cosa sacra per l'anima e per l'eternità! Cristo Signore, il figlio del carpentiere di Nazaret, sia sempre per tutti noi la nostra vera forza e la nostra invincibile speranza. Il lavoro umano alla luce di Cristo "Figlio del carpentiere" di Nazaret
Omelia del Card. Dionigi Tettamanzi Giubileo del mondo del lavoro nella Chiesa di Genova Genova - Cattedrale, 17 marzo 2000

Celebrare e vivere il Giubileo significa volgere lo sguardo a Gesù Cristo, il Figlio di Dio che si è fatto uomo come noi e per noi 2000 anni fa, l'unico e universale Salvatore del mondo. Non uno sguardo qualsiasi, ma uno sguardo che scruta con gli occhi della mente e del cuore credente, e che quindi è presa di coscienza, meditazione, contemplazione di Cristo Signore e adesione personale libera e gioiosa a Lui. Questo sguardo coincide con la realtà viva della fede, di cui la celebrazione giubilare vuole essere una rinnovazione più convinta e intensa. Il Giubileo è dunque qualcosa di tipicamente religioso e spirituale. Ma è anche ed insieme qualcosa di profondamente umano e vitale: tocca l'uomo, l'uomo nella sua vita concreta. Infatti Gesù Cristo, il grande festeggiato del Giubileo, è vero Dio e vero uomo. Oggi poi, nella memoria di San Giuseppe - sposo di Maria e padre putativo di Gesù -, vogliamo guardare a Cristo come "figlio del carpentiere" di Nazaret. Proprio così lo vedono i suoi compaesani, quel giorno in cui "Gesù, venuto nella sua patria, insegnava nella sinagoga". Rimangono stupiti e s'interrogano: "Da dove mai viene a costui questa sapienza e questi miracoli? Non è egli forse il figlio del carpentiere?" (Matteo 13, 54-55). Come gli abitanti di Nazaret, anche noi lo chiamiamo "figlio del carpentiere". Sì, lo chiamiamo con questo nome, mentre con la luce della nostra fede lo riconosciamo nella sua "identità" unica, cioè come Dio. Proprio in questo luogo di lavoro, nella casa di Nazaret, dunque in questa esperienza umana fondamentale che è il lavoro, egli è e rimane il Figlio eterno di Dio. Anche noi come gli abitanti di Nazaret siamo sorpresi e rimaniamo stupiti, ma per un motivo diverso: perché Gesù dedica trent'anni della sua vita sulla terra al lavoro nella famiglia, relegando - inspiegabilmente, ci verrebbe da dire se ci rifacciamo alle categorie del mondo - la sua "vita pubblica" ai soli ultimi tre anni.
Dalla vita di Nazaret una nuova luce sul lavoro umano Proprio su questa vita di Nazaret vogliamo riflettere insieme e pregare: vi possiamo trovare la risposta vera, e perciò profonda e sempre attuale, alla ineliminabile domanda sul posto e sul senso che il lavoro deve avere nella nostra vita. Superiamo subito una difficoltà, un'obiezione: è vero che il nostro lavoro d'oggi, nelle sue diversissime tipologie specie nell'ambito dell'industria e dei servizi, è lontano mille miglia dal lavoro svolto da Gesù a Nazaret. Eppure, se andiamo oltre le modalità esteriori secondo cui oggi - e domani ancora di più - si configura il lavoro umano nella nostra società e cerchiamo di coglierne il significato più radicale, quello cioè che ne fa un'espressione privilegiata dell'umanità dell'uomo, allora dobbiamo avere la saggezza e il coraggio di avvicinare il nostro lavoro a quello di Cristo: solo così lo possiamo decifrare nel suo vero e autentico significato. In realtà, in quest'ultimo secolo della vita della Chiesa c'è stato chi ha trovato la sua via di santificazione rifacendosi al modello vivo di Gesù a Nazaret: Charles de Foucault, fondatore dei "piccoli fratelli" e delle "piccole sorelle", di cui non vide la nascita. Egli ci ha lasciato una stupenda pagina di diario sulla "vita di Nazaret" come programma di vita in ordine alla santità. Vogliamo rileggerla questa pagina, datata Bèni-Abbès 22 luglio 1905, che continua anche oggi a sprigionare freschezza e fascino spirituale. Parlando a se stesso e a se stesso dettando le condizioni di vita che Cristo gli consegna, Charles de Foucault scrive: "Gesù ti ha stabilito per sempre nella vita di Nazaret… Sia essendo solo che con gli altri fratelli, assumi come obiettivo la vita di Nazaret, in tutto e per tutto, nella sua semplicità e ampiezza. Non un abito particolare -come Gesù a Nazaret- non clausura -come Gesù a Nazaret- non una casa lontana da luoghi abitati, ma vicina ad un villaggio -come Gesù a Nazaret- non meno di otto ore di lavoro al giorno, manuale o no, ma per quanto possibile manuale -come Gesù a Nazaret- non grandi terreni, non grandi case, non forti spese e neppure abbondanti elemosine ma un'estrema povertà in tutto -come Gesù a Nazaret. In una parola, in tutto: come Gesù a Nazaret…". Forse più d'uno di noi vi trova dipinta la propria condizione di vita: non un abito particolare, non la clausura, ma una casa in mezzo alle altre, otto ore di lavoro e di lavoro manuale, un patrimonio terriero, immobiliare e finanziario più che modesto, se non una situazione di povertà. Ma nelle parole di Charles de Foucault ciò che è centrale e decisivo è questo straordinario ritornello come Gesù a Nazaret, che diventa il modello vivo, il criterio unico, la legge fondamentale, la forza trascinante degli atteggiamenti e dei comportamenti da assumere e da vivere ogni giorno. Come Gesù a Nazaret: ora questo vale non solo per Charles de Foucault o per i suoi seguaci, i piccoli fratelli e le piccole sorelle, ma per tutti, indistintamente: vale, in particolare, per noi impegnati nel mondo del lavoro: imprenditori, dirigenti, impiegati, operai. In realtà, proprio dalla vita di Gesù a Nazaret emergono, tra le altre, quattro linee fondamentali che definiscono il senso veramente e pienamente umano del nostro lavoro ed insieme la sua novità cristiana.
La normalità del lavoro nella vita d'ogni giorno E un Gesù normale quello che troviamo a Nazaret, un uomo comune a tutti gli altri. Ed elemento essenziale è proprio il suo lavoro con Giuseppe. Anche questo particolare "con Giuseppe" si rivela interessante: Gesù lavora con un uomo "giusto", umile, nascosto, dedito alla sua famiglia. E questo per trent'anni: tanti anni, dunque, e sempre uguali; e giorno dopo giorno. E così la normalità coincide con la quotidianità, con quanto di ripetitività e dunque di fatica, di sacrificio e di impegno comporta. E all'insegna del senso del dovere: è legge di natura per tutti lavorare! E che tipo di lavoro compie Gesù a Nazaret? Lavoro di falegname o fabbro che sia, è pur sempre lavoro manuale quello di Gesù. Lo sappiamo tutti, e Gesù "il figlio carpentiere" ce lo insegna con le sue mani di lavoratore, che ogni lavoro, anche quello manuale e il più umile e il più stressante, ha la sua dignità umana, in quanto rimanda al dato fondamentale della persona che lavora., in obbedienza al comando originario di Dio Creatore. Già qui sorgono non pochi interrogativi sulla "filosofia" del lavoro, o più concretamente sulla mentalità diffusa circa la considerazione del lavoro. Qual è dunque il giudizio comune sul lavoro? Conta di più il lavoro -cioè il tipo di lavoro- o la persona che lavora? E da questo punto di vista non ci sono, forse, discriminazioni inaccettabili, perché oltre i limiti della giustizia, anche nell'ambito della retribuzione economica del lavoro, come pure nell'ambito delle pensioni? Certo, c'è una giustizia "distributiva" - che è vera giustizia, e quindi legittima e doverosa -, ma proprio perché "giustizia", essa ha pure dei limiti, oltrepassati i quali si entra nel campo opposto dell'ingiustizia: un'ingiustizia che si fa insulto alla povertà di tante persone, anzi e più radicalmente si fa insulto alla stessa dignità di quanti percepiscono retribuzioni evidentemente fuori misura. Che cosa si deve dire di certi "divi" dello sport e della televisione, soprattutto quando è in questione il danaro pubblico, cioè di tutti e per tutti? Forse che il tempo, le forze fisiche e psichiche dell'ultimo lavoratore valgono di meno del tempo e delle forze di un alto dirigente di governo o di partito o di industria? Conosciamo la risposta: queste sono le leggi del mercato; esse danno molto a qualcuno perché la sua attività movimenta enormi capitali a beneficio di molti. E così perfino la giustizia sembra salva. Ma sono salve le nostre coscienze, se irretite dall'unica regola del guadagno o dimentiche della necessità morale e civile di regolare il mercato, affinchè sia il mercato per l'uomo e non l'uomo per il mercato?
Il lavoro e la vita in famiglia Gesù è al suo paese, a Nazaret. Ed è con Maria, la madre, e con Giuseppe, il padre putativo e insieme il "maestro" di lavoro. E forse con gli anni è con Giuseppe diventato anche il "compagno" della fatica d'ogni giorno. Un lavoro, dunque, quello di Gesù che si svolge in famiglia. Anche questo è ricco d'insegnamento per noi. Infatti, il dato "sociologico" del lavoro in famiglia, peraltro così modificato nell'esperienza storico-sociale-culturale con il variare dei tempi, si pone pur sempre come dato "paradigmatico", in quanto fa emergere la questione permanente e sempre attuale del rapporto tra lavoro e famiglia. Questo rapporto può esprimersi con due interrogativi generali. Il primo: senza lavoro, quale famiglia è possibile? In realtà, non c'è famiglia senza lavoro! Non è possibile costituirla o - se costituita - non è possibile farla crescere nei valori e secondo le esigenze che le sono peculiari. E non è questione soltanto economica. Con l'aiuto di Dio esistono famiglie belle e sante anche nell'estrema povertà dei mezzi! Ma il lavoro è inserimento attivo nel tessuto della società, è partecipazione all'opera - che deve essere di tutti - di edificazione della città; la famiglia che ne sia esclusa è come mutilata, emarginata, il volto segnato e deturpato da una ferita che può portarla a vergognarsi, a nascondersi, a prediligere sentieri male illuminati e trascurare gli spazi aperti e luminosi in cui la gente si incontra e stabilisce i primi germi dell'umana comunione. E l'altro interrogativo: senza famiglia, quale lavoro è possibile? E di nuovo, in realtà non c'è lavoro senza famiglia! L'esperienza infatti ci dice che la famiglia è il luogo educativo primario e insostituibile anche per il lavoro. Ci sono però genitori che non educano adeguatamente i loro figli al lavoro, ossia non li aiutano nella loro necessaria maturazione: o perchè perché non espongono al lavoro e alle difficoltà che comporta (si pensi anche solo agli spostamenti) preferendo tenerseli in casa e "mantenerli" con il loro patrimonio (la cosiddetta "famiglia lunga"); o perché, al contrario, spingono al lavoro comunque, anche quando questo non si sposa con le situazioni dei figli o non ne valorizza affatto le capacità; o perché pretendono per i figli un determinato lavoro, magari scelto privilegiando il reddito o la notorietà. Si deve creare un buon rapporto, una alleanza positiva tra la vita di lavoro e la vita di famiglia. Entra qui l'esigenza di un'azione insieme formativa e politico-sindacale. E necessaria un'opera formativa, che aiuti il lavoratore a non "sacrificare" i valori più profondi della vita familiare: se è vero che la mancanza di lavoro crea seri problemi per la vita della famiglia, non minori li crea anche l'eccesso di lavoro, ossia un impegno lavorativo che diventa esclusivo e totalizzante, che non conosce né feste né pause, che nega nei fatti ogni momento di riflessione, di vita familiare e di dono. Ma è necessaria al riguardo anche un'adeguata azione politico-sindacale al riguardo: spostamenti e orari di lavoro devono obbedire solo a logiche di "efficienza economica", od anche a logiche di "efficacia umana", come la coltivazione di rapporti interpersonali più significativi nell'ambito della famiglia?
Il lavoro al servizio del "villaggio" di Nazaret Gesù svolge il suo lavoro nella casa di Nazaret, dunque in un villaggio, ma anche per il villaggio e con tutta probabilità per altri villaggi ancora. Ritroviamo così la dimensione sociale del lavoro. Lo spazio familiare si dilata e diventa lo spazio comunitario più vasto, mediante l'ampliarsi dei rapporti interpersonali: aumentano le persone alle quali viene destinato il frutto del lavoro e le persone con le quali si lavora. E qui sorge l'esigenza di fare dei luoghi di lavoro non solo uno spazio geografico o fisico nel quale ci si trova nè un campo di rivendicazioni reciproche, anche se giuste, ma una comunità di persone: una comunità cioè dove le persone vengono non solo rispettate nella loro dignità umana ma anche valorizzate nelle loro varie risorse e potenzialità. Come è noto, è questa la precisa proposta della dottrina sociale della Chiesa; ma è questa anche un'esigenza umana, naturale e razionale, di cui sono oggi consapevoli le stesse scienze economiche più moderne. Così, ad esempio, leggiamo nell'enciclica sociale di Giovanni Paolo II, Centesimus annus: "Scopo dell'impresa non è semplicemente la produzione del profitto, bensì l'esistenza stessa dell'impresa come comunità di uomini che, in diverso modo, perseguono il soddisfacimento dei loro fondamentali bisogni e costituiscono un particolare gruppo al servizio dell'intera società" (n. 35). E nel Messaggio per la celebrazione della Giornata Mondiale della Pace del 1° gennaio 2000 il Papa scrive: "Sembra confermato dall'esperienza che il successo economico sia sempre più condizionato dal fatto che vengano valorizzate le persone e le loro capacità, promossa la partecipazione, coltivate di più e meglio le conoscenze e le informazioni, incrementata la solidarietà" (n. 15). La dimensione sociale -ancor più che quella personale- riveste oggi contenuti, caratteristiche e quindi problematiche inedite, quali la globalizzazione e i nuovi rapporti tra lavoro e lavoratore e tra lavoratori, rapporti che non passano più soltanto attraverso scambi "fisici" ma vengono talora affidati a modalità nuove, che potremmo definire "virtuali" (internet fra tutte). Potenzialità nuove si schiudono e più diffuse appaiono le opportunità di informazione, ma i contatti personali possono rarefarsi, mentre l'affollamento indiscriminato di informazione può frastornare anziché aiutare il pensiero e generare conoscenza… Un fenomeno ancora agli albori, cui dovremo p restare attenzione, per i rischi come per le opportunità, astenendoci per ora dal pronunciare sentenze necessariamente affrettate. Nel segno della concretezza quotidiana possiamo brevemente soffermarci su due aspetti intimamente collegati con la dimensione sociale del lavoro. Rileviamo, anzitutto, la necessità di vivere un più spiccato senso sociale coltivando una stretta parentela, anzi un'intima interdipendenza tra diritti e doveri. Si sa come sia facile la rivendicazione dei propri diritti, in ogni campo e quindi anche in quello del lavoro. E giusto e doveroso. Ma è altrettanto giusto e doveroso il corrispondente impegno morale ad assumersi i propri doveri: se non ottempero ai miei doveri, che ne sarà dei diritti di mio fratello? E non sempre questo è altrettanto facile! Eppure la società può essere offesa non solo con la violazione dei diritti ma anche con l'abdicazione alle responsabilità. Il lavoro è inscindibilmente diritto e dovere! Rileviamo, inoltre, un altro fondamentale valore della dimensione sociale del lavoro: il valore della solidarietà. E un valore che chiede di essere vissuto secondo alcuni centri concentrici. In primo luogo all'interno della propria azienda. In tal senso ci si può chiedere se è vivo e concretamente operoso il senso della solidarietà tra i compagni di lavoro, specie in momenti di disagio e di difficoltà aziendali? Il senso della solidarietà, poi, deve sapersi inserire nel circuito delle diverse aziende di una determinata città o territorio o settore. Ed infine si può e si deve parlare di senso di solidarietà ad un livello più ampio e più alto, ossia in rapporto al "sistema" Paese, attraverso una vera e propria "politica del lavoro". Questa, in realtà, è chiamata a fare della solidarietà non un semplice e sia pur nobile sentimento etico, ma un principio originario e strutturale della crescita globale e organica dell'economia di un Paese, e di questa nella più grande economia del mondo, casa comune di tutta l'umanità. Gesù salvatore del mondo mediante il lavoro La fede ci assicura: Gesù Cristo è il salvatore del mondo, l'unico salvatore! Ma questa stessa fede ci apre alla meraviglia e allo stupore, perché Gesù Cristo è l'unico e universale salvatore anche mediante il suo lavoro quotidiano a Nazaret. Ed è veramente sorprendente ed eloquente per noi sapere che il Salvatore fa sbocciare la salvezza proprio qui, tra le mura o nei dintorni di questa piccola casa di Nazaret. Solo dopo trent'anni rivedremo il Salvatore altrove, cioè sulle strade della Palestina e sulla Croce. Fa sbocciare la salvezza con il lavoro delle sue mani: altrove ci sarà la parola che annuncia la "lieta notizia", mentre qui tutto è nascondimento e silenzio; altrove ci saranno i gesti miracolosi, mentre qui l'unico "miracolo" è quello di un lavoro che fa "vivere": fa vivere chi lavora e gli altri ai quali il lavoro è destinato. Ha scritto il Papa nella sua enciclica sul lavoro: "Cristo appartiene al mondo del lavoro, ha per il lavoro umano riconoscimento e rispetto; si può dire di più: egli guarda con amore questo lavoro, le sue diverse manifestazioni, vedendo in ciascuna una linea particolare della somiglianza dell'uomo con Dio creatore e Padre" (Laborem exercens, n. 26). Ma si deve procedere oltre. Il Papa afferma che il lavoro "entra nell'opera della salvezza" (Ibid., n. 24). Sì, è la fatica umana di Cristo Salvatore che "santifica" il lavoro ed insieme lo rende "santificante". E questo vale non solo per lui, ma anche per noi. E ancora la fede a dirci che il nostro lavoro è una partecipazione, una condivisione del lavoro di Gesù Cristo. Per questo anche il nostro lavoro, mediante la grazia del Signore Gesù, diventa luogo di salvezza e di santificazione per noi e per gli altri. Ma dobbiamo chiederci con coraggio: abbiamo noi la consapevolezza della novità cristiana presente e operante nel nostro lavoro? Crediamo che è nel lavoro e attraverso il lavoro della nostra giornata che noi ci salviamo e ci santifichiamo? In realtà, c'è una condizione indispensabile per avere limpida questa consapevolezza e forte questa fede: è l'amore al silenzio del cuore e al colloquio della preghiera. Charles de Foucault, nella pagina di diario che sopra abbiamo ricordato, scrive: "Prega come Gesù, quanto Gesù, facendo come Lui un posto sempre molto largo alla preghiera, recita ogni giorno fedelmente il Breviario e il Rosario. Ama Gesù con tutto il cuore ed il tuo prossimo come te stesso per amor Suo. La vita di Nazaret può essere vissuta dappertutto: vivila nel luogo più utile al prossimo". La preghiera ci sosterrà in un'altra manifestazione della novità cristiana del nostro lavoro: quella della testimonianza. Non c'è vita cristiana senza testimonianza. E di nuovo precisiamo: la testimonianza passa attraverso il vissuto quotidiano, che in gran parte è il vissuto del lavoro. E ancora una volta la nostra testimonianza deve presentare i lineamenti tipici della vita di Nazaret: e dunque una testimonianza che avviene nella semplicità, normalità ed essenzialità; che non ricorre a nessuna "predica" e a nessun "proselitismo"; che non ha bisogno di segni distintivi o speciali; che rifugge da tutto ciò che può urtare sensibilità diverse dalla nostra; che non scade in qualche forma di pietismo. Basta il dovere, il dovere compiuto nel migliore dei modi! Senza dire che la vita di grazia dei lavoratori - questa meravigliosa inabitazione di Dio, Trinità santissima, nella nostra anima - rappresenta la più preziosa ricchezza spirituale che noi offriamo, anche se a loro insaputa, ai nostri compagni di lavoro. E questo il lievito evangelico, nascosto quanto efficace, che fermenta l'impasto dell'ambiente di lavoro e contribuisce al vero "bene comune" di cui ha bisogno la nostra società.
Dallo sguardo di Cristo la conversione del cuore e della vita: anche nel campo del lavoro All'inizio abbiamo definito il Giubileo come un guardare a Gesù Cristo. Ma del Giubileo si dà una prospettiva più profonda, più vera e più bella: esso è un lasciarci guardare da Gesù Cristo. E il suo è uno sguardo che, penetrando nell'intimità del nostro essere, ci sfida e ci sollecita alla conversione del cuore e della vita. Quanto potente e misericordioso sia questo sguardo lo testimonia in modo mirabile sant'Ambrogio, che lega il pianto di Pietro - ma anche di tutti i peccatori - con gli occhi di Cristo: "Pietro si rattristò e pianse, perché sbagliò, come tutti sbagliano. Lacrime preziose, che lavano la colpa! Si mettono a piangere coloro ai quali Gesù volge il suo sguardo… Guardaci, Signore Gesù, affinchè sappiamo piangere il nostro peccato… Se ti avviene di sbagliare, Cristo ti è accanto come testimone delle tue segrete azioni e ti guarda perché te ne ricordi e confessi il tuo errore" (Esposizione del Vangelo secondo Luca, X). Anche su ciascuno di noi Cristo Signore posa con amore il suo sguardo. Accogliamolo questo sguardo, consegnandoci a Cristo non a parole ma con una vera e profonda conversione: solo così Lui farà il miracolo di purificarci e di rinnovarci, imprimendo in noi il cuore nuovo e facendoci camminare sui sentieri della giustizia e della carità.. Non c'è Giubileo senza conversione! Non c'è conversione senza cambiamento di vita! Non c'è cambiamento di vita se l'amore a Dio non diventa anche amore al prossimo! Non c'è amore al prossimo se non si assolvono i propri doveri, a cominciare dai doveri di ogni giorno! Così il Giubileo, come ripeto in continuità facendo eco alla parola del Santo Padre, è un fatto inscindibilmente religioso e sociale, un fatto dunque carico e portatore di un dinamismo che incide in modo concreto e sperimentabile sulle realtà e attività sociali, economiche e politiche. Anche nel mondo del lavoro, quindi, entra il Giubileo con il suo appello alla conversione. E questa esige che lo stesso discorso sul lavoro venga ripreso, approfondito, calato nel vissuto quotidiano della nostra Città. Sì, non dobbiamo aver paura di parlare, ancora una volta, di lavoro: è giusto e doveroso farlo. Perché se è vero che talvolta si fa un discorso demagogico o strumentale sul lavoro, è altrettanto vero che altre volte sembra persino di dare fastidio quando si parla di lavoro. Ma il vero problema non è il parlare di lavoro, ma è il lavoro stesso. E allora ci sono interrogativi che non possiamo zittire o censurare: la nostra Città nelle sue varie espressioni - Chiesa, società civile, istituzioni, associazioni - ha davvero a cuore il lavoro? In concreto, quale atteggiamento assume verso le condizioni che favoriscono il lavoro oppure lo vanificano, rendendolo non solo difficile ma impossibile? Di nuovo, il Giubileo ci deve spronare, dandoci il coraggio di mettere a nudo interessi che sono preminenti nei confronti del lavoro e che lo rendono perdente, di denunciare obiettivi discutibili che contano più del mantenimento dei posti di lavoro e della creazione dei nuovi posti. Recentemente i Vescovi liguri in un loro ampio Comunicato (8 febbraio 2000) si sono soffermati su alcuni gravi problemi della nostra Regione, sollecitando come urgente "un vero salto culturale", ossia un coraggioso cambio di cultura che porti ad una crescita condivisa dei valori ideali e morali che stanno alla base dell'imprenditorialità, della collaborazione e dell'indispensabile superamento della paura del nuovo e dei rischi che sempre comporta: condizioni tutte irrinunciabili per la creazione di nuove attività produttive. Concludo ricordando che in altre occasioni, di fronte al giudizio del Signore al quale nessuno può sfuggire, ho ritenuto di dover pronunciare alcuni "guai": guai a chi cancella un solo posto di lavoro al di là dell'indispensabile per la corretta sopravvivenza dell'azienda! Guai a chi avendo un lavoro non vi si impegna quanto potrebbe sottraendo nuovo possibile lavoro ai fratelli!… Con identifica forza, ma nella forma di un'accorata implorazione, mi sento ora di dire: vi prego, carissimi uomin