UFFICIO NAZIONALE PER I PROBLEMI SOCIALI E IL LAVORO
DELLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA

Il grande Giubileo del 2000 nel sociale e nel lavoro

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24 Gennaio 2000

mettere in discussione il modell o di sviluppo nelle sue logiche perverse, traendo dalla dimensione lavorativa quelle qualità di pace che vi sono inscritte. Attraverso l'opera dei cristiani impegnati in esso, il mondo del lavoro, all'origine del mercato stesso, dovrà e potrà far la sua parte per intervenire sulle strutture ingiuste e sui loro effetti perversi, per liberare i poveri e dar loro il lieto annuncio dell'anno di grazia. 1. Il grande Giubileo
Nella tradizione del Giubileo le immagini più impresse, nella memoria dei fedeli, sono i pellegrinaggi e le indulgenze. Pur senza togliere nulla a tutto questo, Giovanni Paolo II sta ponendo dei segni facilmente leggibili per una diversa comprensione dell'evento stesso. Innanzitutto il prossimo lo ha chiamato "Grande Giubileo". Il passaggio di millennio, l'anno 2000, gli ha fornito l'occasione e forse l'ispirazione per una celebrazione più significativa: è il primo giubileo cristiano a cavallo di millennio; è un anno ritenuto, ingenuamente, punto di riferimento di un futuro migliore; è un anno che sembra essere a sé in quanto non appartiene più al '900, e non è ancora secolo 21°. Un anno che sembra sfuggire alla catalogazione e che già in questo evoca il Regno dei Cieli, il quale sta oltre il tempo pur senza esserne fuori. Nella Tertio millennio adveniente (nn. 9-11) il Papa ricorda che Cristo è il Signore del tempo, che in Lui, Verbo incarnato, Dio si è calato nella storia, l'eternità si è calata nel tempo, il quale diventa così una dimensione di Dio; diventa luogo della misericordia, della grazia e della salvezza. C'è un intreccio fra salvezza e tempo dell'uomo. L'oggi di Dio non è a-temporale o a-storico, è perenne: la presenza di Dio nel tempo, resa visibile nell'incarnazione, realizza la pienezza del tempo. Nel passo di Luca 4, 17-21 Gesù a Nazareth afferma che l'anno del Signore è "oggi", l'oggi di Dio, al di sopra del tempo dell'uomo, non catturato da esso, ma che agisce in esso. Il suo messaggio è la liberazione dei prigionieri, la vista ai ciechi, la libertà agli oppressi, e il lieto annuncio ai poveri. E il tempo escatologico, un evento futuro che agisce nel tempo attuale; è la speranza che cambia il presente facendo di questo il tempo della salvezza. E l'azione della risurrezione che già ora porta il suo frutto. Infatti Luca 6, 20 dice che i poveri sono beati perché di loro è, fin da adesso, il Regno dei cieli. Chi v ive nella speranza evangelica anticipa il futuro, pone i segni del Regno di giustizia, amore e pace, li scopre se sono presenti nella storia per opera dello Spirito e si pone a loro servizio. La speranza evangelica, escatologica, fa sì che subito si creino nuove relazioni umane; infatti tutto va ripensato alla luce del primato di Dio e del suo Regno. L'anno del Giubileo è quello della riconciliazione e della pace, della conversione e del perdono. La legge divina che lo introduce nel AT è fondata sulla proprietà della terra che è di Dio, non degli uomini che la occupano: "La terra è mia, dice il Signore, e voi siete presso di me come forestieri e inquilini" (Lev 25, 23). Questo comporta recupero della libertà e della proprietà per ognuno, come base della dignità di ogni membro del popolo di Dio, da lui salvato dalla schiavitù dell'Egitto. Infatti il Giubileo è un editto di remissione dei debiti, di liberazione dei prigionieri e schiavizzati, del ritorno alla divisione della terra come al tempo dell'esodo, quando è distribuita per ordine di Dio fra le tribù del suo popolo; ha dunque una pregnanza di significato sociale concreto. Anche in Luca 4 c'è una fisicità, una concretezza, che impedisce di interpretare i poveri solo come fatto simbolico. I poveri non sono detti beati da Luca 6, 20 perché umili, paziente, buoni, disponibili, ma perché di essi è il Regno dei cieli e in essi Gesù stesso (cf Mt 25, 31-46) si identifica. Con le loro miseria umane, frutto della stessa povertà, sono presenza evangelizzante; con le loro piaghe evidenziano l'esigenza di amore fraterno, di giustizia, di pace come frutto della fraternità e condivisione dei doni di Dio Padre, il quale nel Catechismo della Chiesa cattolica è chiamato "Padre dei poveri" (n. 238 cf Salmo 68,6). D'altra parte la fede non è un fatto di "gnosi", di pura conoscenza intellettuale. E piuttosto espressa in una conoscenza esistenziale di Dio, è una sequela reale del Cristo, una prassi di amore per la pace e la giustizia; ci viene chiesto di fare ciò che lui qui-ora, per questi poveri in questa situazione, avrebbe fatto. 2. Il Giubileo, evento di riconciliazione e di pacificazione
La riconciliazione del Giubileo cristiano pone al primo posto il perdono dei peccati, delle colpe, ma non dimentica l'effetto di esse. La stessa dottrina dell'indulgenza è un segno della necessità, non solo della conversione reale, ma anche della necessità di eliminare gli effetti perversi delle azioni peccaminose. Si rompe infatti con esse l'amicizia con Dio, l'armonia della creazione, la giustizia nelle relazioni umane. Il peccatore pentito non solo è tenuto a risarcire i danni dovuti alle sue personali azioni che determinano ingiustizia, è anche mosso a lottare contro gli effetti di danni arrecati da altri, o da strutture ingiuste, altrimenti ne sarebbe correo, come se le condividesse. Nell'amore di Cristo che lo coinvolge, vuole la salvezza integrale di ogni uomo, a partire dai poveri. In questa ottica il Papa, con il suo magistero e con la sua azione in vista del Giubileo, cerca di coinvolgere tutto il mondo ricco ad accollarsi il peso del mondo povero. Così egli vuole che venga preso in esame il problema del debito internazionale dei paesi poveri, il quale impedisce il decollo di un giusto sviluppo non esclusivamente affidato al mercato e indica, fra le condizioni per ottenere le indulgenze, l'attenzione ai poveri. Ci ripropone, come nel AT, l'azzeramento del debito dei poveri e la possibilità di offrire opportunità di vita e di benessere, rettamente inteso, a tutti. Egli ridona al Giubileo quella forza pacificatrice e riconciliatrice dentro la storia e la società, che un eccesso di intimismo e spiritualismo gli poteva togliere, mentre in questo modo diventa una ripresa di passione per Dio e per l'uomo, ogni uomo, in un'epoca in cui al centro c'è la globalizzazione dei mercati, e soprattutto il dominio del mercato finanziario globale. Questo è, al momento, sotto il segno de l liberismo sfrenato, della concorrenza e del profitto ad ogni costo. Capitali enormi vengono spostati da un capo all'altro del mondo esclusivamente per speculazione; è un gioco a scacchi in cui la sconfitta è sempre dei poveri, pedine anonime e spersonalizzate che spesso producono ricchezza senza ottenere protezione dei loro diritti fondamentali. Con la globalizzazione il mondo è diventato un intero grande mercato in cui le multinazionali hanno un ruolo dominante e premono sui governi per una totale liberalizzazione a livello mondiale. E il modello neo-liberista che si dà come unico, dogmatico e indiscutibile e propone un "totalitarismo" del mercato, come unico strumento di distribuzione della ricchezza e dei beni necessari alla vita umana. Ormai è sempre più chiaro che oggi la questione sociale è centrata sulla globalizzazione. Ma la ricchezza che l'uomo possiede è frutto del suo lavoro e del dono della creazione. Questo ci rimanda al lavoro umano, in quanto il mercato è scambio di merci prodotte dall'uomo, o sempre comunque con il suo contributo di lavoro. Lo stesso mercato finanziario, per quanto viva sulla speculazione e sulla fluttuazione delle borse, deve pur sempre avere alla base l'economia reale. L'uomo trae dal creato, con il suo lavoro, i beni che rispondono ai suoi bisogni e a quelli altrui, così si pone in relazione con tutti gli altri uomini intenti al grande banco di lavoro che è l'intera creazione, come pure si pone in relazione con tutti gli esseri. Da questo, dal suo appartenere all'universale famiglia umana e dal suo abitare lo stesso pianeta, deriva l'interdipendenza e anche la globalizzazione. E ne deriva anche la capacità di dialogo e comunicazione universale. Tutto ciò espone contemporaneamente il lavoratore al rischio di ingiustizie e sfruttamenti, ma anche alle opportunità di stabilire nuove relazioni di pace e solidarietà con tutti coloro che, con quei prodotti, risponderanno ai propri bisogni. E vero che al momento tali relazioni s ono mediate dal mercato impersonale e a volte disumano, ciò non toglie che esistano e che possano essere rese comunque più personali e umane. Per quanto iniziative ancora piccole, rispetto al sistema economico mondiale, attualmente imperante, a questo mirano il commercio equo e solidale, la banca etica, le imprese sociali, tutto il mondo della cosiddetta economia civile. Queste iniziative infatti favoriscono umanizzazione, solidarietà e giustizia; forse non occuperanno mai il mercato in modo da dominarlo completamente, ma certamente turbano l'eccesso liberista e vanno oltre l'unico scopo della ottimizzazione del profitto. La stessa globalizzazione dei mercati e le società di mercato potrebbero dimensionarsi su criteri etici di umanizzazione e tutela dei diritti. Ma ciò potrà accadere senza un quadro giuridico vincolante e un potere politico adeguato? Il potere politico ha il dovere di controllo per la tutela dei diritti fondamentali di tutti. Quale potere politico potrà controllare il mercato globale? Difficilmente si potrà invocare un autocontrollo dello stesso, l'esperienza storica lo smentisce. Le attuali organizzazioni di controllo del commercio e della finanza mondiali sono strumenti tecnici non sottoposti a poteri politici democratici. In realtà non rispondono a nessuno delle loro scelte. Potrà esserci un controllo da parte del mondo del lavoro? Potrà l'ONU essere democratizzata e resa efficiente? E per tornare a problemi più immediati si potrà mettere in discussione l'assunto delle società affluenti secondo il quale una volta esauriti i bisogni primari dei cittadini dei paesi ricchi, per sfuggire alla saturazione dei mercati e allo stallo dell'economia, è necessario indurre nuovi bisogni, nuovi desideri di consumo, nuovi sogni e nuovi sprechi? Ci si potrà invece rivolgere ai bisogno primari delle popolazioni povere? Tanto più che ora sono esse stesse a fornire, non solo le materie prime sempre meno necessarie, ma anche la mano d'opera a bassissimo costo nei loro paesi, e mano d'opera per lavori disagiati qui da noi. Il fenomeno attuale delle immigrazioni dai paesi poveri, mentre da una parte suscita le paure egoiste che i poveri possano portare via le ricchezze ai ricchi e provoca chiusure localistiche, dall'altro è una prima risposta alla sperequazione dell'uso delle risorse a livello mondiale e un avvio di dialogo con culture e civiltà diverse. Il libero mercato nel tempo della globalizzazione, senza controlli politici democratici, finalizzato esclusivamente alla massificazione del profitto, può introdurre situazioni di oppressione anche peggiori di quelle del liberismo dei primi tempi, soprattutto nei paesi poveri. Mentre nei paesi ricchi favorisce da una parte la polarizzazione delle ricchezze e delle povertà, dall'altra fa crescere lo svuotamento di senso della vita delle persone. Questo evidenzia la forza reale, ma la debolezza concettuale ed etica del liberismo, il quale ipotizza la società costruita attorno al mercato - forza reale perché impone agli Stati e ai singoli le leggi del massimo profitto, dell'efficienza economia senza che alcuno lo possa contrastare; - debolezza concettuale perché non sa ne può difendere i diritti fondamentali, la solidarietà con i deboli, lo stesso ambiente. Si disgrega, ad opera del liberismo, oltre alla società per i particolarismi che introduce, anche l'individuo in quel vuoto dovuto al tarlo del 'consumismo' delle società affluenti, che ha consumato da dentro il senso e il sapore della vita. Questa stessa è fatta intendere come bene di consumo. Si diffonde sfiducia nel futuro, paura degli altri, isolamento... i mali tipici delle società ricche. Ma nello stesso tempo, data la più matura coscienza dell'unico destino dell'intera famiglia umana, la più chiara consapevolezza dell'interdipendenza, la maggiore conoscenza reciproca, sarà possibile stabilire una solidarietà universale, una tensione alla pace e alla giustizia almeno per garantire a ciascun uomo il rispetto de i diritti fondamentali. In fondo non possiamo guardare in faccia nessun uomo senza vedere in esso il riflesso del volto di Dio, o almeno quello del nostro stesso volto. Occorre promuovere una riflessione presso l'opinione pubblica cioè presso l'intera società, soprattutto quella ricca occidentale, a partire da uno 'sdegno etico' prodotto dalla constatazione delle ingiustizie. Forse qui il mondo del lavoro può ritrovare un filo che lo ricollega alla sua tradizione di solidarietà e di lotta contro l'ingiustizia e soprattutto oggi contro l'indifferenza. Se la dimensione dei problemi fa sconcertare occorre ricordare la forza dello Spirito che è in noi, che ci fa capaci di operare per il Vangelo e di far emergere le aperture al dialogo e alla pace, intrinseche all'attività lavorativa. Il coraggio di iniziare attività, con criteri nuovi ma senza ingenuità, porta i credenti a inventare forme nuove; porta a relazioni nuove. La benedizione di Dio all'uomo, nel secondo racconto della creazione, lo pone come custode del giardino. L'immagine che ne ricaviamo è di pace e di armonia. Il peccato ha certamente portato caos, ma non ha distrutto il giardino né la vocazione dell'uomo a coltivarlo.
3. Il Giubileo e l'evangelizzazione del mondo del lavoro
Illuminato dalla redenzione, l'uomo al lavoro fa di questo un mezzo per esprimere comunione, solidarietà, armonia che anticipa quella del Regno dei cieli. Questo Regno, la festa, la pace e l'armonia sono il vero senso del lavoro, ed è ciò che l'anno del Giubileo vuole appunto anticipare. Le forme di evangelizzazione del mondo del lavoro, ora che cultura, metodi di produzione e luoghi di lavoro sono radicalmente cambiati, dovranno avere una diversa modulazione. Se è vero che con il post-fordismo si va via via esaurendo la cultura della società di massa, anche la pastorale non potrà essere di massa, istituzionale. Tanto più che ora coloro che frequentano abitualmente le Chiese sono in Italia fra il 10% e il 15%, mentre a noi è chiesto di annunciare a tutti il Vangelo. Il cristiano vive nel tempo e deve per forza tenere presente il concreto, la situazione, l'evoluzione culturale, deve trovare in sé, nella fede che si fa prassi, una nuova energia e dalla situazione una nuova intelligenza della fede per l'evangelizzazione. Ogni credente nel suo territorio, nel suo ambiente, deve entrare in contatto con coloro che vi convivono ed essere testimone del Vangelo con la vita, le scelte, le opinioni espresse. Si può affermare che nel tempo attuale l'uomo occidentale soffre per la perdita del senso, per la scarsa capacità a dare significato alla vita, e nello stesso tempo nel mondo, villaggio globale come oggi si dice, c'è mancanza di solidarietà, di giustizia, di armonia, o quanto meno ce n'è bisogno. Le due cose sono in relazione. La chiusura su di sé esclude orizzonti di senso e prima ancora di significato. Questi non si trovano in noi, anche se si devono cercare attraverso la nostra coscienza, a confronto con noi stessi. L'uomo nasce come essere comunitario e aperto al suo destino trascendente. La sua dimensione personale non può prescindere dal dialogo con gli altri, né può prescindere dalla ricerca di significato che è già ricerca di dialogo con Dio, anche se inconscia. L'uomo è essere in relazione e vive di relazioni. In particolare necessita di relazioni rese vive da amore. Proprio ciò che è escluso dal mercato; vi domina infatti l'interesse, cioè in ultima analisi l'egoismo. I problemi di mancanza di significato e senso, e di solidarietà sono inscindibili. Ciò che ridona speranza è una novità di relazioni umanizzanti e un'apertura al futuro. Ma se si devono intessere relazioni più umane, ogni credente dovrà stabilire relazioni liberanti e di pace, dovrà aggregarsi per creare situazioni che maturino una capacità di partecipazione e di autorealizzazione; dovrà farsi capace di promuovere e difendere la dignità di tutti e saper ascoltare ognuno. Si tratta di una vera e propria mis sione dei laici nel 'secolare', nel quotidiano, nell'incontro casuale, nelle vie e nelle piazze, nei posti di lavoro. Qui le situazioni specifiche di strumentalizzazione dell'uomo al profitto detteranno le parole e i gesti necessari. Ogni uomo è voluto da Dio come amico e compagno di conversazione, ed è voluto da Dio in una comunità umana di amore e pace, come fanno intendere i primi capitoli del Genesi. Questa è la vocazione che dà significato e senso alla sua vita. Per questo nessuno può ridurlo a strumento ed egli dev'essere libero e in grado di vivere in questa relazione con Dio, gli altri uomini, tutti gli esseri. Per questa comunione il Figlio si è incarnato; questa stessa comunione che Dio cerca sarà più piena quando e se ognuno di noi vi corrisponderà in modo attivo. Ogni credente, cosciente di questo dialogo d'amore, è chiamato per ciò stesso ad essere testimone presso ogni uomo che incontra. E chiamato ad accogliere Dio in dialogo con l'altro e a stabilire con l'altro la comunione che nasce da questo fatto comune. E chiamato a riconoscersi in comunione con chiunque è cosciente di questo dialogo, ma anche a favorire la comunione con chiunque, anche se questi non sente, o sente parzialmente, le parole di questo Dio che gli parla e che continua a parlargli nonostante la sua distrazione. Si prospetta allora una forma di evangelizzazione molecolare affidata ad ogni credente, dentro il qui ora di ognuno, nella presenza fraterna e nella condivisione; si rende necessaria la capacità di ascoltare le parole evangeliche presenti per opera dello Spirito che parla a tutti, a collaborare e ascoltare tutti coloro che condividono la situazione. Occorre saper suscitare un'attenzione alle nuove relazioni da stabilire, una nuova apertura, una rinnovata 'passione' per Dio e per i fratelli, che determinano un'opera di solidarietà, di giustizia, senza abbassare lo sguardo solo alla propria opera, al proprio reddito; come pure occorre saper