UFFICIO NAZIONALE PER I PROBLEMI SOCIALI E IL LAVORO
DELLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA

Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia… Tavola rotonda su proposte educative di relazione e di rapporti di giustizia (parte 1)



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21 Ottobre 1999

Siamo arrivati al terzo momento del nostro Seminario, la tavola rotonda, con la quale vorremmo entrare in campo e confrontarci con la prassi educativa, in attesa di poter formulare, oggi pomeriggio, delle proposte precise di itinerari in chiave pastorale e formativa. Abbiamo con noi quattro ospiti che rappresentano quattro luoghi, o meglio prospettive sulla vita dei giovani lavoratori. Ci parleranno in qualità di osservatori e di operatori nel mondo dei giovani lavoratori, soprattutto per quanto riguarda l'aspetto delle relazioni. Ovviamente non chiediamo loro di presentarci quello che fanno come realtà associative, ma di aiutarci ad individuare le opzioni educative, le strategie, i contenuti delle esperienze che fanno crescere le relazioni negli ambienti che loro frequentano, in maniera tale che siano umanizzanti, mature e giuste. Gli ospiti sono, in ordine, Riccardo Bilancioni, un giovane imprenditore che si definisce un imprenditore di seconda generazione, presenterà le relazioni all'interno del luogo di lavoro dal punto di vista dell'imprenditore; Michele Del Campo, responsabile del Centro Studi di Firenze della CISL nazionale, parlerà delle relazioni dal punto di vista del sindacato; Edio Costantini, vice Presidente nazionale del Centro Sportivo Italiano, affronterà il tema delle relazioni dei giovani che lavorano per quanto riguarda il tempo libero e particolarmente il mondo dello sport; Francesco Baldoni delle Acli marchigiane, proporrà una riflessione sulle relazioni nell'ambito del volontariato e dell'impresa sociale.
Riccardo Bilancioni mondo imprenditoriale
Credo che la mia sia un'esperienza tipica perché, da studi fatti e comunque da una valutazione ormai condivisa, le piccole e medie imprese sono una realtà molto importante nel nostro Paese. La mia esperienza familiare nasce per volontà di mio padre, fondatore insieme a suo fratello dell'impresa, pur provenendo da esperienze assolutamente diverse dal mondo imprenditoriale. Mio non
no, infatti, faceva il pastore in questa zona, anche se, nel suo piccolo, era già imprenditore perché aveva tante pecore, quando in zona ce ne erano ben poche. Mio padre, per gran parte della sua adolescenza, ha fatto il pastore, e da qui la famiglia si è sviluppata. C'è chi ha preso la strada dei formaggi e chi quella della lana, prima riempiendo i materassi, poi facendo maglieria intima - i classici mutandoni o i camicioni di lana che funzionavano benissimo nel dopoguerra - evolvendo fino alla produzione per la grande distribuzione. Ora abbiamo tre linee di produzione con un marchio proprio. Tutto questo è avvenuto in una cinquantina d'anni - l'età che ha l'azienda - vivendo tutti i momenti belli e brutti di un contesto di questo tipo. Personalmente ho un ricordo molto forte dei momenti non sempre positivi. Sono cresciuto in un piccolo paese, frequentando ambienti come l'oratorio e altre esperienze associative, per cui ho sempre vissuto un dualismo tra il mondo imprenditoriale, il mercato con le sue regole, e gli altri aspetti culturali che venivano dal mondo cattolico. Secondo me l'esperienza imprenditoriale non è sempre positiva perché quelle che vengono definite imprese di famiglia, sovente, hanno molto d'impresa e poco di famiglia, nel senso che le logiche che governano la vita familiare sono più quelle dell'impresa che non quelle della famiglia. Il lavoro, infatti, diventa parte integrante e predominante nella vita quotidiana; ce lo portiamo in casa, in vacanza, nel tempo libero, e questo fatto, esasperato, impoverisce moltissimo l'ambiente culturale vivo qual è la famiglia. Il mondo imprenditoriale ha delle regole, dei ritmi che non sono sempre arricchenti. Una seconda esperienza, che mi ha segnato fortemente, è quel fenomeno che miete il 67% di imprese in Italia che è lo sviluppo generazionale, quello che alcuni chiamano il passaggio generazionale. Esso crea turbolenze fortissime all'interno dell'impresa-famiglia a tal punto da eliminare il fa mi liare dalla vita dell'impresa, fino ad investire pesantemente il lavoro con logiche di profitto, piuttosto che con logiche di realizzazione personale. Queste cose spesso vengono gestite con strumenti razionali, organigrammi, "business plan" e altri strumenti di questo tipo, trascurando il fatto che il problema è tutto nella passione verso il proprio lavoro. Oggi, per la prima volta, ho sentito parlare di questo problema in questo ambito ecclesiale, con l'invito a formulare proposte educative che mirino alla sostanza, che tendano ad apprezzare ciò che è stato e ciò che sarà, a mettere in equilibrio le due generazioni. Anche nel mondo cattolico c'è scarsa attenzione verso questi problemi per cui il mondo del lavoro e il mondo dell'impresa si danno da fare con logiche che spesso danno risultati parziali come, ad esempio, il fatto che dicevo prima a riguardo del 67% delle imprese che non supera il passaggio generazionale. Sono cresciuto alternando momenti di lavoro con lo studio universitario, in un contesto dove qualsiasi attività che poteva essere arricchente per la persona era vista in famiglia come tempo rubato al lavoro, per cui niente sport, convegni, incontri culturali o altre esperienze simili. Dico queste cose non per demonizzare o per trasmettervi un'idea negativa del contesto, ma perché è la realtà. Questa situazione si ritrova in più del 90% delle imprese simili alla mia, per cui l'ambiente è molto selettivo, dal punto di vista della crescita, perché priva i giovani di occasioni di crescita qualitative. Condivido l'affermazione che con il mercato e con le sue logiche si fa fatica a crescere in qualità poiché è una crescita non misurabile, mentre la tendenza è di misurare la qualità della cosa con indicatori quantitativi e non qualitativi. Questo fenomeno è fortemente evidenziato anche dal fatto che, da tempo, viene denunciato un disequilibrio, non solo tra nord e sud, ma in tutto il sistema. Anche le piccole imprese fanno esperienza di questo d iseq uilibrio nel senso che, se si continuano ad usare le logiche di mercato, in maniera esasperata, si rischia moltissimo. Le logiche che vengono usate per gestire l'impresa, spesso, sono logiche che tendono a scaricare le proprie inefficienze su chi viene dopo nella filiera o, se si ha grosso potere contrattuale, sui fornitori. Di fatto, utilizzando queste logiche, scompare l'artigiano e il fornitore, e con questo si distrugge una ricchezza. Il passo che bisogna fare, secondo me, è quello di iniziare a parlare di queste cose, senza demonizzare il lavoro d'impresa cioè evitando il pregiudizio che l'imprenditore è l'uomo nero, il bandito della situazione. Questo può essere vero in alcuni casi, ma ci sono molti imprenditori che cercano di reinventarsi, accogliendo anche i segnali forti che vengono dal mercato. Nelle famiglie e in altri contesti che conosco, non si può parlare di relazioni di giustizia, di rapporti di equità, di solidarietà: è un linguaggio che non appartiene all'imprenditore di prima generazione. Per l'imprenditore che, come mio padre, ha fatto per molti anni un lavoro in campagna, è cresciuto in un contesto dove bisognava cogliere più in fretta possibile le opportunità che passavano sul mercato, dove si pensava a crescere e a svilupparsi, la spiritualità nell'impresa, l'educazione, la crescita personale, non è un linguaggio che arriva al destinatario. Esistono altre logiche, che appartengono al linguaggio d'impresa, che possono lavorare dal di dentro e portare dei risultati maggiori. L'imprenditore, da solo, non riesce a fare una lavoro di qualità, occorre una grossa partecipazione delle persone che stanno in azienda, di coloro che sono più sensibili, degli operatori sociali, della stessa Chiesa e del sindacato. Sono cose che si stanno rimuginando e qualcosa sta venendo fuori. Di fatto siamo in un contesto di passaggio dalla prima generazione d'impresa alla seconda, e non è detto che sia sempre un passaggio di qualità. E', comunq ue, un momento di turbolenza che può essere usato positivamente, perché è una situazione in cui la gente si chiede e si interroga sugli obiettivi e sulle posizioni nei confronti delle logiche di mercato. Io stesso, con mio fratello, ci siamo trovati a fare quest'esperienza chiedendoci: "E la cosa che veramente vogliamo fare? E la cosa in cui crediamo?". Siamo stati, così, due mesi senza lavorare nell'impresa di famiglia, perché le cose che ci venivano proposte non erano per noi qualitative dal momento che credevamo e crediamo in altri valori. Questo avviene anche perché le seconde generazioni hanno un grado di scolarità molto più alto rispetto alle prime, quindi sono più sensibili e riescono a fare propria una certa terminologia, un certo linguaggio. Comunque, anche se al punto di vista imprenditoriale potremmo essere molto indietro, è anche vero che gli stimoli che vengono dall'esterno non sono di qualità. Vorrei presentarvi, ora, una piccola esperienza di attività che vorremmo mettere in piedi in azienda, anche se siamo coscienti che è poco ciò che facciamo. Ci piacerebbe fare molto di più, però facciamo fatica per il contesto che ho detto, perché le maestranze sono sensibili ad altri fattori, perché bisogna fare i conti con una serie di considerazioni. Comunque la cosa interessante che, nel nostro caso, ha dato dei risultati è quella di utilizzare i canali imprenditoriali per metterli a disposizione delle maestranze. Per esempio possono essere utilizzati i canali di approvvigionamento dell'impresa anche da chi fa parte dell'impresa stessa, rovesciando sui partner d'impresa e sui dipendenti le facilitazioni che l'impresa può avere. Questo può essere fatto per i viaggi, per i libri, per la cancelleria... La cosa che mi va di puntualizzare è che l'imprenditore, da solo, non riesce a fare impresa di qualità. Secondo me è fondamentale cambiare anche la prospettiva, è importante che ci sia un forte senso di appartenenza anche da parte dei lavoratori al la voro d'i mpresa, che cresce appunto sulla responsabilità di tutti. C'è anche la disponibilità ad ascoltare, a far crescere innovazione dalla base, per cui è importante capire che se si collabora con il linguaggio giusto, con gli atteggiamenti e la sensibilità del caso, si potrebbero ottenere dei risultati migliori. Questa è l'esperienza che stiamo vivendo nella nostra azienda.

Michele Del Campo Centro Nazionale Formazione CISL
Innanzitutto vi ringrazio dell'invito. Parla un sindacalista, quindi un soggetto che ultimamente non è ben voluto e viene contestato perché non fa più lotte, un soggetto che si dice che spesso è venduto, che non produce più solidarietà, un soggetto che sembra in crisi. Valutiamo meglio cos'è questo sindacato e soprattutto se ha un'attenzione ai processi di giustizia, ai processi educativi e alle relazioni educative. Questa mia riflessione è molto in sintonia con quanto diceva Daniele Marini, nella parte precedente della mattinata, e quindi risparmierò alcune cose alle quali accennerò soltanto. Organizzo la mia comunicazione in questi punti: la riscoperta delle radici del sindacato; il sindacalismo come protezione; la rappresentanza e il cambiamento; l'attenzione ai cambiamenti avvenuti nell'ultimo ventennio; il compito di continuare a produrre valori. Questo è lo schema con tanti punti che accennerò soltanto per stare nei tempi.

1. La nascita del sindacato
Solo con il lavoro può avvenire l'incontro con l'organizzazione sindacale. In questo ambiente nuovo l'esistenza dell'individuo viene reinterpretata e il sindacato si presenta come un'esperienza che l'individuo fa, un'esperienza che per alcuni può essere unica, come per il sottoscritto, e che per altri può essere limitata nel tempo. Quindi il sindacato è un incrocio tra persone che sono disposte a mettere insieme i propri bisogni e un soggetto, il sindacalista, che vuole organizzare e unire queste realtà per dare loro una forma e per tutelare. Il sindacato è il soggetto p iù grande che nella storia si è contrapposto all'individualismo liberale, che ha ripudiato l'individualismo della rivoluzione francese e il liberalismo dei filosofi utilitaristi inglesi. Il sindacato è fondato su un gruppo, su una società organizzata modellata dalla miniera, dall'opificio, dalla fabbrica o da altri luoghi dove il lavoro si esercita; modellata anche dalle esperienze individuali. Il lavoro richiama in sé un'esperienza di gruppo e non tanto di individui. Oggi, anche se le cose cambiano, il lavoro continua a conservare alcuni elementi di gruppo, a richiamare appartenenze sociali particolari che si formano nelle diverse realtà professionali e che risultano intermedie fra l'individuo e lo Stato, le due sole realtà che nelle democrazie borghesi erano considerate rilevanti.
2. Il sindacato come protezione
Il sindacato svolgeva e svolge tuttora un grande ruolo di protezione del lavoro dal libero e incondizionato funzionamento del mercato. Il suo obiettivo è quello di porre il lavoro al riparo soprattutto dalla concorrenza, in primo luogo fra i lavoratori poi tra i datori di lavoro. Questo impone al sindacato di costruire relazioni di solidarietà e di integrazione tra le parti della società affinché il lavoro non sia sottoposto agli alti e bassi del mercato. Quindi il sindacato, nel proteggere il lavoro e i lavoratori, si caratterizza come un elemento di solidarietà, soprattutto attraverso la realtà quotidiana della rappresentanza. Mentre svolge quest'azione di protezione e di creazione di solidarietà può produrre, come spesso è capitato, anche un suo essere conservatore, in quanto tenta di proteggere soprattutto i gruppi che si aggregano. Molto spesso nel passato, fino a quando non è nato il sindacato industriale, il sindacato dei grandi settori era in contrapposizione con altri gruppi, perché il problema era quello di esercitare il monopolio della forza lavoro. La rappresentanza, intesa come legittimazione a parlare per nome e per conto di qualcuno, riproduce impegno, dedizione, solidarietà, giustizia. Pensate soprattutto ai sindacalisti degli albori e al sindacato come promozione sociale, come organizzazione che mette alla pari soggetti diversi, datori di lavoro e lavoratori. Una grande azione di rappresentanza, che ha in sé questi elementi valoriali molto forti, può produrre anche aspetti ambivalenti, come egoismo e meschinità, nel senso che il sindacalista può essere preso da problemi personali che lo portano a fare scelte non coerenti con la rappresentanza. In questo compito di rappresentanza, comunque, il sindacato tende a ricostruire il tessuto morale e la dimensione etica di parti della società che ne erano state private, colpite soprattutto dall'indigenza e dall'insicurezza. Quindi è stato un soggetto che ha combinato interessi, passioni, quotidianità e ricerca etica all'interno della società. Mi permetto una citazione di Simon Weil, una donna straordinaria, grande filosofo e matematico, che ha scelto di condividere la condizione operaia e che ha vissuto il sindacato in Francia negli anni '30, che scrive: "Il sindacato è un movimento popolare, misterioso nella sua origine, singolare ed inimitabile al pari di una canzone popolare. Esso ha una tradizione, uno spirito, un ideale; ha i suoi eroi, i suoi martiri, e persino i suoi santi, in gran parte sconosciuti. Non corrisponde né ad una dottrina, né ad una tattica, né a un qualsivoglia opportunismo, ma solo alle aspirazioni, ai bisogni del popolo durante un determinato periodo della storia". Al di là della visione un po' idealizzata, vale la pena sottolineare il fatto che il movimento sindacale sta nella storia minore, non in quella dei grandi avvenimenti, dei grandi trattati o delle grandi svolte del mondo, con tanti testimoni che cercano di educare ad alcuni valori attraverso l'azione, la socializzazione e la condivisione.
3) La rappresentanza e i cambiamenti
La funzione della rappresentanza, al di là del p arlare in nome e per conto di, è quella di fare incontrare tre elementi di fondo: - l'interesse dei lavoratori e l'interesse dell'organizzazione; - far incontrare i bisogni considerati socialmente legittimi, inserendoli in un orizzonte di valori. Non tutti i bisogni sono legittimi; il sindacato è quel soggetto che cerca di dare ordine in questa dimensione dei bisogni; - la fiducia, nel senso che comunque una relazione sindacale si costruisce attraverso un rapporto di fiducia, senza il quale il sindacato diventa una lobby o altro. Quindi la rappresentanza, facendo incontrare questi tre elementi, fa sì che il sindacato non sia solo protezione o conservazione, ma anche cambiamento. E nella natura stessa del sindacato essere soggetto che produce cambiamento attraverso la sua partecipazione alle decisioni con la controparte e anche con i lavoratori. Il sindacato determina momenti di cambiamento della società attraverso la contrattazione e la negoziazione, però subisce anche il cambiamento perché non è l'unico soggetto ad agire nella società. Infatti, alcuni cambiamenti sono prodotti anche da altri soggetti; pensate, ad esempio, ad un'innovazione tecnologica in un sistema di lavoro, non sempre è prodotto con il consenso dei lavoratori. Quindi anche in questo caso c'è un'ambivalenza in quanto l'azione sindacale, attraverso la rappresentanza e la contrattazione, determina momenti e subisce momenti di cambiamento. Il sindacato diventa così un soggetto di relazionalità, attraverso il processo di rappresentanza, in quanto è una mediazione tra diversi interessi, per evitare individualismi. Per realizzare questo il sindacato è costretto a relazionarsi con gli altri, vivendo o facendo vivere processi di democrazia e di partecipazione alla vita collettiva, determinando così anche le condizioni per stabilire relazionalità. Inoltre il sindacato stabilisce relazionalità anche con la contro parte attraverso la contrattazione, nel senso che il sindacato è un soggett o che non può ag ire da solo, non è un movimento autoreferenziale, ma si definisce in continua relazione con gli altri, sia i suoi aderenti, sia le controparti. Le relazioni con le controparti possono essere di vario tipo: conflittuale, più o meno conflittuale, collaborativo, partecipativo, ma è l'essenza della relazione che qualifica l'azione sindacale. Il sindacato, nella sua relazionalità, è preso da un dilemma di fondo: "Chi tutelare? Gli inclusi o gli esclusi?" Questo è il grande dilemma che, fin dalla sua nascita, il sindacato continua a portarsi dietro. Oggi i problemi si aggravano perché il lavoro si soggettivizza e diventa una risorsa scarsa. Comunque il sindacato deve dare una risposta a questi temi, perché attraverso i processi di inclusione allarga la sua tutela, la sua relazionalità, le relazioni di giustizia. Il problema è cosa può essere incluso è cosa può essere escluso? Il sindacato si può far carico dei disoccupati? Il luogo di lavoro può essere un luogo dove si realizzano situazioni di giustizia, situazioni di inclusione e di esclusione? Il territorio, e non soltanto il luogo di lavoro, può essere il luogo dove si realizzano situazioni di giustizia? E quali sono i soggetti deputati?
4) L'attenzione ai cambiamenti avvenuti nell'ultimo ventennio
In un contesto dove tutto si sta ridefinendo, dove le radici si indeboliscono e la soggettivizzazione cresce, dove la dinamica inclusione-esclusione non si risolve facilmente, anzi è continua poiché non si è neppure più certi che almeno gli inclusi siano tutelati, è necessario costruire un linguaggio sindacale nuovo, un linguaggio sociale che reinterpreti che cosa è la giustizia oggi. Questo il sindacato lo può fare soltanto a partire dal lavoro che, comunque, continuerà, almeno per i prossimi 100 anni, a rimanere una questione centrale per l'individuo, un luogo culturale del rapporto tra le persone. Naturalmente questo richiede la capacità di costruire un linguaggio nuovo sulla solidarietà , sui nuovi valori e i nuovi simboli, ridefinendo il rapporto uomo-uomo, uomo-natura, uomo-responsabilità. In un contesto in cui, nella nostra società, crescono gli opportunisti razionali - come li ha definiti qualcuno - i progetti non possono essere di grande solidarietà, ma devono essere più legati ai progetti di gruppo. In questo contesto le persone vogliono contare di più e bisogna offrire loro spazi affinché possano esprimere il loro valore. Bisogna riconoscere anche altre forme organizzative, e passare dalle tipiche organizzazioni piramidali a organizzazioni più a rete. Emerge, così, un terzo elemento della relazionalità per il sindacato che è il collaborare con altri soggetti, nel senso che, da solo, il sindacato non può più riuscire ad esprimere tutela per il lavoratore soprattutto quando esce fuori dalle dinamiche del luogo di lavoro.
5) Il compito di continuare a produrre valori
Il sindacato deve continuare a produrre valori rafforzando il radicamento nelle esperienze sindacali. Si può dire tutto il male che si vuole del sindacato, però, è tra i pochi soggetti, radicati tra la gente, che dal nord al sud, dall'est all'ovest, da settori professionali ad altri, è presente ed esprime tutela. La dignità è ancora un valore da tutelare perché, al di là di tutte le realizzazioni che oggi il lavoro può esprimere, nei percorsi lavorativi concreti, molta forza lavoro è ancora percepita come merce. Altro valore che nasce dalla condizione del lavoro è la solidarietà. Nel passato la lotta era l'elemento centrale, mentre oggi la solidarietà deve essere declinata più nei progetti di gruppo. Questo vuol dire che il sindacato deve cominciare a fare contrattazione più di gruppo e meno contrattazioni generali, per rispondere alle differenze della società. I valori universali, la libertà, l'uguaglianza, la fraternità hanno ancora senso perché non sono ancora realizzati soprattutto nei processi di globalizzazione che venivano richiamati prima. Ugualmente valori politici sono ancora rilevanti, soprattutto la partecipazione, come pure i valori sociali. Il sindacato si qualifica anche come mondo vitale, una comunità educante soprattutto attraverso l'azione. Di problemi aperti ce ne sono tanti, anche se oggi il sindacato non può più rispondere in modo omogeneo a tutte le sollecitazioni che vengono dalla società. C'è bisogno di personalizzare gli interventi, di rendere la tutela del lavoro più corrispondente alle situazioni frammentarizzate che si vivono, di regolamentare il mercato del lavoro anche per avviare attività educative nel mondo giovanile alle quali il sindacato può portare il suo contributo. Abbiamo due questioni che rimangono aperte. La prima riguarda il rispetto delle norme contrattuali perché, in molti contesti di lavoro soprattutto nelle piccole imprese dove il sindacato è meno presente, ci sono ancora diritti da far rispettare come, ad esempio, la tutela dell'ambiente, l'igiene e la sicurezza. La seconda questione è quella di essere un soggetto che orienta i percorsi di definizione del mercato del lavoro, altrimenti vinceranno solo i più forti. Il problema è garantire ai più deboli l'inserimento nei percorsi di lavoro, per cui la formazione diventa un elemento centrale nella gestione di questi percorsi. Un altro elemento, a margine di tutto, è la promozione del lavoro, nel senso che per includere c'è bisogno di promuovere lavoro, ed è quanto il sindacato sta facendo in collaborazione con altri soggetti. Riusciranno i nostri eroi in questa impresa? La storia lo dirà. Fino ad ora la grande capacità del sindacato è stata quella di interpretare i tempi e di cambiare le sue strategie. Gli orizzonti rivoluzionari al sindacato appassionano poco, appassiona di più la gestione dei processi della vita quotidiana perché è un soggetto della vita quotidiana.