UFFICIO NAZIONALE PER I PROBLEMI SOCIALI E IL LAVORO
DELLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA

Un lavoro a misura di famiglia: quali vie di ri-conciliazione?

30 Giugno 2008

PRESENTAZIONE
SERGIO NICOLLI – PAOLO TARCHI

Attualmente in Italia il mondo del lavoro e quello della famiglia sono per lo più, salvo fortunate circostanze, fortemente contrapposti tra loro, in antagonismo e concorrenza: chi si affaccia all’esperienza lavorativa spesso deve operare una scelta, dolorosa e a volte drammatica, tra il tempo da dedicare al lavoro e la cura per la propria famiglia.
Nel febbraio 2007 i due Uffici della Conferenza Episcopale Italiana di cui siamo Direttori (Ufficio per la Pastorale della Famiglia e Ufficio per i Problemi Sociali e il Lavoro) sono partiti da questo problema per una riflessione comune, di carattere sociologico, antropologico e teologico, che suggerisse vie di ri–conciliazione rispetto a questo dilemma, fonte di fatiche e sofferenze che portano spesso a compromettere la stabilità delle famiglie italiane.
 Proprio mentre stavamo progettando questo Convegno, è giunta una lettera da parte di una giovane Signora lavoratrice, in attesa del secondo figlio: un invito drammatico a porre la nostra attenzione pastorale non soltanto al suo problema, ma alla vicenda di tante famiglie che si trovano nella sua stessa situazione. Abbiamo così deciso di aprire il Convegno con la testimonianza diretta di questa Signora, che riportiamo qui parzialmente.
 «Ho 31 anni, ho conseguito la laurea quinquennale in Scienze Biologiche e successivamente la specializzazione quadriennale in Biochimica Clinica, entrambe con il massimo dei voti con lode. Ho trovato subito lavoro presso uno dei più grandi laboratori analisi di Roma per il quale lavoro tuttora come biologa con un contratto a tempo pieno ed indeterminato. Il contratto a tempo pieno prevede un totale di 40 ore lavorative distribuite in cinque giorni settimanali. Inizio a lavorare alle 08:30 e finisco alle 17:30, con una pausa pranzo obbligatoria di un’ora. Partendo da Rocca Priora per recarmi sul luogo di lavoro nel quartiere Parioli in Roma impiego mediamente, utilizzando i mezzi pubblici, circa due ore.
 Lavoro da cinque anni, la mattina mi alzo alle 05:30 ed esco da casa alle 06:30 e rientro alle 19:30 di sera. Questi orari di lavoro, pur se pesanti, li ho potuti sostenere abbastanza fino a quando ho vissuto a casa con i miei genitori. Da quando mi sono sposata l’orario di lavoro è diventato insostenibile, soprattutto dopo la nascita del mio primo figlio che oggi ha due anni e mezzo.
 Nonostante il mio titolo di studio e il lavoro che svolgo, percepisco una retribuzione al netto tra i 1.100 e i 1.200 euro mensili, come anche lo stipendio che guadagna mio marito.
 Con uno stipendio copriamo le spese del mutuo contratto per l’acquisto della casa e della rata mensile dell’asilo nido privato per nostro figlio, poiché nel mio paese non esiste un asilo nido pubblico. L’altro stipendio lo impieghiamo per le spese di gestione della famiglia: alimenti, vestiario, bollette, spese sanitarie, assicurazione, bollo e manutenzione della nostra unica auto eccetera.
 La mattina esco di casa per andare a lavoro alle 06:30, mentre mio marito, che ha la mia stessa vita lavorativa, si prende cura di svegliare e preparare nostro figlio per portarlo all’asilo entro le 07:20 per poi arrivare al lavoro alle 09:00. Il bimbo, che frequenta l’asilo da quando aveva dieci mesi, vi rimane ogni giorno per circa nove ore dalle 07:20 alle 16:00 ora in cui lo riprendono i miei genitori e resta con loro fino alle 19,30, quando lo andiamo a riprendere appena tornati da lavoro.
 Rientrati a casa, nonostante la stanchezza della giornata lavorativa, ci occupiamo di tutte le faccende domestiche: cena da preparare, camere da riordinare eccetera. Oltre a queste attività io e mio marito cerchiamo di dedicare le attenzioni necessarie a nostro figlio che vuole giocare, vuole le coccole che alla sua età sono più che normali.
 Dopo cena, mentre mio marito lava i piatti e sistema la cucina, io mi occupo di preparare il bimbo per la notte e se tutto va bene per le 23:00 siamo tutti a letto.
 Il fine settimana lo trascorriamo facendo tutte quelle cose indispensabili che non riusciamo a fare durante la settimana: pulire tutta casa, lavare, stendere, stirare, fare la spesa, andare a messa e se non ci sono contrattempi la domenica pomeriggio riusciamo anche a riposare.
Per aver maggior tempo da dedicare alla mia famiglia, ma soprattutto ai miei bambini (sono attualmente in attesa del secondo), è da circa due anni che sto chiedendo al mio datore di lavoro una riduzione dell’orario lavorativo, proponendo un part–time lungo (6 ore lavorative giornaliere invece di 8), ovviamente con corrispettiva riduzione dello stipendio. Tuttora i due stipendi sono necessari, ma siamo disposti a rinunciare ad una parte di essi per il bene dei nostri figli.
 La medesima richiesta, è stata più volte avanzata da altre mie colleghe che si trovano a vivere la mia stessa situazione, ma dall’altra parte ci è sempre stata data risposta negativa.
 Per questo motivo mi sono rivolta ingenuamente ai sindacati nella certezza di trovare una risposta soddisfacente alla mia esigenza di un orario lavorativo part–time laddove riconosciuto dalla legislazione in materia. Con mio grande stupore, disappunto e dolore, ho ricevuto una precisa risposta negativa anzi con la precisazione che nessuna norma dispone alcunché al riguardo e che, il part–time, pur in queste delicate circostanze di madri–lavoratrici, viene consesso a discrezione del datore di lavoro.
 Nel frattempo ho sempre continuato a cercare un altro lavoro che mi permettesse di avvicinarmi a casa o di lavorare meno ore, ma al giorno d’oggi trovare un lavoro stabile è già un’impresa, e con un mutuo sulle spalle e dei bambini piccoli non ci si può permettere una situazione salariale precaria.
Un anno fa mi è stato offerto un lavoro di collaborazione a quasi un’ora di distanza da casa, offerta che stavo prendendo seriamente in considerazione.  Comunicata l’eventualità della suddetta offerta al mio datore di lavoro e visto il suo interesse a tenermi presso la sua azienda, gli ho chiesto come condizione per restare l’agognato part–time. Il datore di lavoro, invece, escludendo il part–time mi offriva come soluzione un aumento di stipendio.
 Questa situazione di vita con condizioni di lavoro poco flessibili è talmente diffusa che la maggior parte delle nostre coppie di amici, con età compresa tra i 30 e i 35 anni, sposate da anni non fanno figli poiché attendono che le loro condizioni lavorative migliorino, oppure se hanno figli vivono i nostri stessi disagi.
 La situazione descritta può sembrare irreale, ai limiti di una sana sopravvivenza, ma per tante persone come me e per tante famiglie questa rappresenta la triste e dura realtà quotidiana, ulteriormente appesantita dal senso d’impotenza nel trovare soluzioni lavorative che concilino con i tempi della famiglia e ne soddisfino le minimali esigenze.
 Il lavoro è indiscutibilmente importante nella realizzazione di ciascuno di noi soprattutto quando si ha l’opportunità di fare ciò che piace e per cui si è tanto studiato, come nel mio caso, ma si trasforma in un incubo qualora diventi così totalizzante da non concedere alla persona altri spazi e tempi di vita. Questo ritmo di vita mette a dura prova ogni giorno la salute delle coppie e la stabilità dei matrimoni nonchè la tranquillità dei nostri figli che devono adattarsi forzatamente ad orari frenetici con attenzioni che spesso sono fugaci e distratte.
 Come cresceranno questi figli nonostante tutto l’amore e i sacrifici dei loro genitori?
 Chi darà loro un aiuto, una risposta saggia in un mondo che offre tante false e facili soluzioni ai problemi soprattutto di natura esistenziale?
Questi figli “orfani” saranno gli uomini e le donne del domani. Per il bene di tutta la nostra società è bene che ci si preoccupi da subito della loro buona crescita e formazione. Tutto ciò sarà possibile solo aiutando le famiglie nella loro imprescindibile funzione nella formazione della persona umana in tutta la sua completezza.

 Ci è sembrato che non ci fosse stimolo più adeguato per porre il problema in tutta la sua drammaticità e per mettere in atto, oltre che la buona volontà, anche le diverse risorse e competenze di natura antropologica, pastorale e politica per provocare quel cambiamento culturale e sociale che possa riconoscere finalmente la funzione sociale della famiglia e mettere le famiglie in condizione di liberare l’enorme potenziale umano e spirituale di cui tutta la società oggi ha estremo bisogno.
 Oggi il problema più grande è la vita quotidiana. Non è più il luogo dove si sta bene, non è più lo spazio di rapporti buoni. Eppure la famiglia svolge quel lavoro di cura e di socializzazione che il mercato del lavoro dà troppo per scontato.
 Siamo persuasi che da una maggiore serenità delle famiglie, di tanti genitori inseriti nel mondo del lavoro, anche il mondo dell’imprenditoria possa trarre il vantaggio di un “ambiente umano” più positivo e di una favorevole condizione economica.
 Se abbiamo intrapreso questa iniziativa pastorale, è perché crediamo che una visione cristiana della persona, della famiglia e del lavoro possano aiutarci a superare l’attuale drammatica contrapposizione per favorire una ri–conciliazione che renderà più “umano” il lavoro e più agevole la missione della famiglia.

Mons. Sergio Nicolli
Direttore dell’Ufficio Nazionale per la pastorale della famiglia

Mons. Paolo Tarchi
Direttore dell´Ufficio Nazionale per i problemi sociali e il lavoro